IERI OGGI E...

 La rivolta del “sette e mezzo” e l’assalto alla caserma.
Ogliastro, settembre 1866.
di Santo Lombino

        L’insurrezione e le sue cause.

Il 16 settembre 1866 squadre di picciotti insorsero prima nei paesi della cintura di Palermo e poi in città contro uomini e simboli della pubblica amministrazione al grido di “Viva la repubblica!” . Utilizzando il nome di un noto gioco alle carte, la rivolta fu chiamata subito del “sette e mezzo”, essendo durata fino a mezzogiorno del 22 settembre. Gli storici hanno molto discusso sulla natura politica e sociale dell’insurrezione, sulle sue cause remote e prossime, sui suoi promotori e dirigenti.
Non vi fu infatti un chiaro indirizzo politico, vedendosi intrecciati nei tumulti intenti anti-governativi in funzione repubblicana e spinte nostalgiche verso il regime borbonico sconfitto da Garibaldi nel 1860. Fra le ragioni dell’evento, molti segnalarono la rabbia dei giovani siciliani e delle loro famiglie per l’introduzione della leva obbligatoria (prevista per cinque anni) prima sconosciuta, la legge di soppressione delle corporazioni religiose cui molta parte dei ceti popolari era legata, il malcontento per i metodi sbrigativi utilizzati dalle forze dell’ordine verso le popolazioni siciliane, considerate dai funzionari statali “selvagge e immature”. A capeggiare la rivolta si trovò un gruppo di borghesi e nobili palermitani i quali, all’arrivo dell’esercito regio, dichiararono di essere stati “costretti” dalle squadre degli insorti a fungere da “comitato rivoluzionario”. In realtà coloro che, su posizioni democratico-repubblicane vicine a quelle di Giovanni Corrao (assassinato nel 1863) e di Giuseppe Badia (temporaneamente in carcere), avevano preparato il movimento, non ne ebbero poi il reale controllo essendosi messe in azione migliaia di persone di orientamento politico diverso. Secondo Francesco Brancato, docente di storia del Risorgimento all’Università di Palermo originario di Ciminna,  molti degli insorti erano gli stessi componenti delle ardimentose “squadre” che avevano lottato contro i Borbone e partecipato alla spedizione dei Mille: “Non pochi di coloro che furono poi ritenuti i maggiori responsabili di quanto avvenne nel ’66 nella città e nei dintorni di Palermo, avevano pure preso parte alla marcia di liberazione del Mezzogiorno ed erano stati poi ancora al seguito di Garibaldi nel tentativo che aveva avuto il suo triste epilogo ad Aspromonte”.

2        I segni premonitori.

Come spesso accade in Sicilia, non per tutti l’insurrezione fu una sorpresa. Il 28 maggio 1866, infatti, il prefetto di Palermo, Torelli, aveva inviato ai sindaci della provincia una circolare avente per oggetto “Guardia nazionale - sua organizzazione - Sicurezza pubblica. Lavori, ed opere pubbliche”. Un mese prima dell’inizio delle ostilità che avrebbe visto l’Italia,  in seguito agli accordi con la Prussia di Bismarck, impegnata nella “terza guerra di indipendenza” contro l’Austria-Ungheria, l’alto funzionario faceva presente che “tutto il Regno d’Italia” stava per entrare in “uno dei periodi i più importanti e dal quale dipenderà la sua sorte futura”. In un momento in cui le necessità belliche avrebbero sicuramente distolto energie e risorse militari dalle regioni meridionali per affrontare il conflitto previsto “nell’Alta Italia”, le autorità comunali erano chiamate a collaborare al mantenimento dell’ordine pubblico nelle retrovie.

Per quanto riguarda il territorio di cui ci occupiamo, un mese dopo quella circolare, il 13 giugno, l’ispettore Della Noce era stato inviato a Misilmeri, paese capo del mandamento che comprende il Comune di Santa Maria di Ogliastro (o semplicemente Ogliastro, dal 1883 Bolognetta), dove regna un grande “marasma sociale”, con il preciso compito di sciogliere e riformare ex novo la Guardia nazionale, piena di “individui sospetti in genere , e perfino degli ammoniti”. Gran parte dei suoi componenti non sono, come dovrebbero essere, proprietari o borghesi, ma “giornalieri” che “non pagano censo alcuno”. Inoltre, per completare il quadro, “nessuno dei militi si presenta al corpo di guardia”, lasciando spesso sguarnite le postazioni.
Il questore di Palermo aveva inviato il 6 agosto 1866 una nota ai suoi subordinati per avere il polso dello stato d’animo dei regnicoli nei confronti del Regno d’Italia sotto la dinastia sabauda. Da Misilmeri il delegato di Pubblica sicurezza Nicolò Magrì, rispondeva il 3 settembre che “lo spirito pubblico in questo mandamento che si compone di tre comuni, cioè Misilmeri, Belmonte e Ogliastro può dirsi titubante nel primo, indifferente nel secondo, e nel terzo.” Mentre nel primo comune si segnala un alto numero di latitanti per reati comuni e renitenza alla leva militare (o diserzione), a Belmonte “i molti arresti eseguiti rinsavirono la popolazione”. Situazione simile a questa ad Ogliastro, “che ha un solo latitante”: pertanto in quest’ultima località “lo spirito del paese è regolare”. Dato che però quella che più conta è la situazione di Misilmeri, il funzionario auspica che il governo “mantenga in luogo molta forza militare, come vi fu sempre per l’addietro. Con questa misura si ottengono due scopi: si tutela l’ordine e si favoriscono anche le condizioni economiche di questo comune che per la siccità di quest’anno non versano in prosperità”
Tre mesi dopo la circolare del Prefetto e due settimane dopo la lettera del delegato di Misilmeri, scoppia quindi l’insurrezione a Palermo e provincia, con modalità simili a quelle anti-borboniche del 1820, del 1848 e del 1860. Il moto rivoluzionario fece registrare anche nella limitrofa Marineo l’assalto alla caserma dei carabinieri e si estese a molti altri comuni della provincia, tra cui Monreale, Borgetto, Villabate, Corleone, Prizzi, Lercara Friddi, Mezzojuso, Piana dei Greci, Villafrati.
A Misilmeri, si verificò l’assalto alla stazione dei carabinieri con l’uccisione di 21 militi e di 10 guardie di pubblica sicurezza. Numerosi gruppi di abitanti reagirono con rabbia ai maltrattamenti subiti da parte delle forze dell’ordine nei mesi e negli anni precedenti. Si registrarono gli episodi più cruenti della rivolta del “sette e mezzo”, che poi furono utilizzati per screditare l’intero moto popolare, definito da uno studioso, ancora ottanta anni dopo, “un episodio di collettiva delinquenza”.
Ecco come, secondo le fonti governative (soprattutto da parte dell’Arma dei carabinieri), vengono ricostruiti i tragici fatti di Santa Maria di Ogliastro.

       Lo scontro di Roccabianca.

Nelle campagne tra gli abitati di Marineo ed Ogliastro veniva segnalata attorno alla metà di settembre 1866 la presenza di “briganti e rivoluzionari” non meglio identificati che “commettevano delitti inauditi per ferocia e barbarie”. Dopo alcune perlustrazioni senza esito nel Bosco di Ficuzza,  il comandante della stazione dei Regi carabinieri di Ogliastro, il brigadiere Remigio (Luigi) Taroni, per “affrontare i facinorosi”, organizzò una perlustrazione il 19 settembre, proprio mentre nel circondario del capoluogo divampava la rivolta antigovernativa. Taroni aveva alle sue dipendenze dieci carabinieri a cavallo: Nicola Bagileo, Francesco Catgiu, Mauro Di Molfetta, Francesco D’Urso, Nicola Facchini (o Flocchini), Gaetano Gargiullo, Pietro Panizza, Michele Pastori, Antonio Prato, Luigi Tettamanti. In contrada Roccabianca, a sud ovest di Ogliastro, i militi si imbattono in una “numerosa banda” che li avrebbe attaccati ingaggiando una fitta sparatoria. I dieci “si stesero in ordine sparso, e da varie parti risposero” al fuoco, ma tre di essi vengono colpiti: i militari D’Urso e Gargiulo, leggermente feriti, non riescono a ricongiungersi al gruppo e si disperdono, raggiungendo il primo il lontano abitato di Vallelunga (Caltanissetta), il secondo Corleone. Francesco Catgiu, colpito da diverse ferite gravi, fu trasportato dai commilitoni nell’abitato di Ogliastro, dove la popolazione era nel frattempo insorta come nei paesi vicini.
Il ferito viene portato in casa del notabile Camillo Romano, già sindaco della “Comune di Ogliastro” nel 1858-59 e già presidente del “comitato rivoluzionario” del 1860. Lo scopo dei carabinieri era quello di sistemare a letto Catgiu per curarlo adeguatamente.

       L’assalto.

Appena arrivati, però, “una turba di popolo si adunava davanti alla casa stessa, emettendo grida scomposte ed assumendo un atteggiamento così minaccioso che il padrone dell’alloggio, fortemente impaurito, supplicava i carabinieri di andarsene”. Dello stesso parere il sindaco Francesco Mosca, intervenuto con il capitano della guardia nazionale Del Lungo ed il notaio e futuro sindaco Vincenzo Benanti: costoro consigliano i militi di lasciare la casa disarmati per non eccitare i rivoltosi, e si impegnano a cercare loro un più sicuro ricovero. Il comandante Taroni ed i suoi vogliono però assistere il collega moribondo, e non lasciano casa Romano finché Catgiu non esala l’ultimo respiro. Successivamente, i carabinieri decidono di accettare la proposta dei notabili ed escono dalla casa senza armi. Unica eccezione di Pietro Panizza, che, “poco fiducioso nel sindaco e negli altri”, conserva di nascosto la sua pistola d’ordinanza. All’esterno, infatti, le urla e le minacce continuano, e nel tragitto verso la caserma, il brigadiere viene colpito alla testa col calcio di un fucile da un rivoltoso. Non reagisce, per evitare che la situazione precipiti. I militi si barricano allora in caserma: qualche anno prima erano stati scelti per tale uso dallo stato maggiore dell’Arma i locali affittati da tale Giuseppe Candela, genero del sindaco Stefano Campo, con accesso sulla “strada rotabile” (oggi Via Roma - Via Vittorio Emanuele).
Secondo una tradizione orale, la caserma all’epoca dei fatti si trovava in una casa ad angolo tra la via del Reverendo Arciprete (l’odierna via Cavour), e la piazza Matrice, a pochi metri dal campanile della Chiesa: le due diverse indicazioni potrebbero riferirsi allo stesso caseggiato.
Attraverso una scala interna, gli otto militari, per sfuggire agli attacchi,  passano dalla caserma alle stanze di un attiguo ufficio comunale. La manovra viene scoperta da quelli che vengono definiti “briganti e rivoluzionari” in armi, che assalgono l’ufficio “con la stessa furia devastatrice” di prima. Il comandante Taroni, per evitare il peggio, si rivolge dalla finestra alla folla cercando di convincere i manifestanti a non compiere azioni irreparabili. Ha pure il tempo di scrivere una lettera ai capipopolo con la quale cerca di persuaderli che è meglio per tutti porre fine al tumulto. La risposta della folla fu un rinnovato attacco e l’urlo “Viva la repubblica!”, la parola d’ordine con cui a Palermo e in molti paesi della provincia erano scesi in piazza i rivoltosi. La porta è scardinata, e Taroni, impugnando l’arma portata con sé da Panizza, affronta per le scale gli assalitori che, infuriati, sparano sui carabinieri Di Molfetta e Pastori, uccidendoli. Difendendo la sua posizione e risalendo le scale, il brigadiere scarica la pistola su Matteo Lo Piccolo, uno dei rivoltosi, che cade colpito a morte. Nella confusione che segue, la folla retrocede, infierendo sui cadaveri dei due carabinieri uccisi, trascinati per le strade e per le trazzere.

       Meglio morti che a pezzi!
Il comandante della caserma, ferito, riesce a barricarsi in una stanza: quando si rende conto del rinnovato assalto dall’esterno, apre una finestra e sventola il tricolore. Gli arriva dal basso una gragnuola di proiettili, e Taroni grida alla folla: “Vigliacchi, non avrete l’onore di prenderci vivi! Viva il re! Viva l’Italia!”. A questo punto “alcuni danno la scalata alla casa e incominciano a scoperchiare il tetto; altri, a mezzo di scale, si accingono a penetrare dalle finestre; altri infine danno fuoco alla porta della stanza barricata” con legna accatastata.
Vista la gravità della situazione, il comandante chiede ai suoi uomini di scegliere tra cadere nelle mani degli assalitori o darsi volontariamente la morte. La scelta cade sulla seconda opzione. Allora Taroni, Bagileo, Facchini, Prato, Tettamanti rivolgono contro se stessi la rivoltella per farla finita. Tutti perdono subito la vita, mentre il carabiniere Bagileo starà in agonia per qualche giorno. Rimane vivo solo Panizza, che non aveva potuto seguire la sorte degli altri perché erano finiti i proiettili nel revolver.

Sfondata la porta, a lui si rivolgono i capi della sommossa chiedendo dove sia il brigadiere. Senza scomporsi, il sopravvissuto li conduce all’interno e, mostrando i corpi senza vita dei suoi, afferma lapidario:”Cercate”. Secondo una versione dei fatti, i rivoltosi, confusi e impressionati dalla scena, non riescono ad aprire bocca. Secondo un’altra, l’orrendo spettacolo produsse “in quei sconsigliati un senso di gioia”. In ogni caso, “per l’intromissione stessa di uno di quei rivoltosi”, il carabiniere Panizza viene risparmiato e potrà raccontare quanto è accaduto.
Ai “cinque martiri di Ogliastro”, fu in seguito conferita alla memoria la medaglia d’argento al valor militare. Al brigadiere Taroni è intitolata ancora oggi la caserma dell’Arma di Corleone.

       La repressione e le condanne.

Allarmato per quanto accadeva in Sicilia, il governo Ricasoli, nomina il generale Raffaele Cadorna luogotenente generale comandante le truppe in Sicilia e Regio Commissario straordinario per la città e la provincia di Palermo. Questi proclama il coprifuoco nelle ore serali e notturne, dichiara lo stato d’assedio, nonché, per due mesi, l’entrata in vigore del codice penale militare di guerra in tutta la provincia. Vengono sciolti d’autorità i consigli comunali di molti comuni, che, a giudizio di Cadorna, non si erano mostrati all’altezza della situazione: tra gli altri, ovviamente, quello di Santa Maria di Ogliastro i cui amministratori non erano stati capaci di fermare i rivoltosi.
A Palermo vengono istituiti tre tribunali militari di guerra presieduti da colonnelli dell’esercito e composti da ufficiali, sia come accusatori sia come difensori d’ufficio, col compito di giudicare gli imputati dei reati commessi durante la rivolta: saccheggi, omicidi, attentato alla sicurezza dello stato, alto tradimento, diserzione, ribellione alle istituzioni nazionali. L’attività di tali tribunali speciali si protrarrà per due anni.
Nell’udienza del 15 novembre 1866 il tribunale militare presieduto dal colonnello Luigi Saldo, emette, in nome di Sua maestà Vittorio Emanuele II, la sentenza per i tragici fatti di Ogliastro. La condanna a morte viene pronunziata per i fratelli Cosimo e Francesco Lo Bue di Gaetano, rispettivamente di 29 e 46 anni, di professione macellai, residenti a Misilmeri. I due, che avevano partecipato all’insurrezione avvenuta nella cittadina di origine dal 16 al 22 settembre, si sarebbero quindi trasferiti nel vicino comune e “resi inoltre autori degli eccidi perpetrati in Ogliastro il 19 di detto mese, eccitando quella popolazione alla strage contro la Pubblica Forza, i cui componenti furono barbaramente trucidati, avendo il brigadiere Taroni e tre RR. Carabinieri preferito, dopo disperato combattimento, uccidersi colle proprie armi, anziché cadere nelle mani di quei cannibali malfattori”.
A Francesco Lo Bue era attribuita l’aggravante di aver percosso più volte a terra, durante i moti,  il calcio del fucile di cui era armato: nel fare ciò, dice la sentenza, “accompagnava il suo cruento progetto con bestemmie”. Per decisione governativa la condanna dei fratelli Lo Bue alla pena capitale fu commutata l’anno seguente in “lavori forzati a vita” e, due anni dopo, in carcere duro per vent’anni.


Impaginazione ed elaborazione grafica
a cura di Silver Sclafani




Nella ricorrenza del primo centenario del cambiamento del nome di Santa Maria d’Ogliastro in Bolognetta (1882-1982).


 Il tempo odierno

Chiama l’Ogliastro Bolognetta.

È forse il nome nuovo

Segno di sangue rinnovato

Nell’allora borgo selvaggio?

Questo gemellaggio

in verità forzato –
Con la dotta e turrita città

Indica forse volontà

Per un nuovo, diverso esistere?

Indica forse invece

Volontà di far obliare

Gesta che il sabaudo stato

Definì a suo tempo "truci e selvagge"

Punendole come efferato esempio

Di barbaro-siculo retaggio.

Nella verità ogliastrese

Quegli atti "a sette e mezzo"

Furono una auto-determinazione.

Esasperata, temeraria reazione

Ai soprusi dei sabaudi

Che adornandosi lo stemma

Del gioiello mediterraneo

- la trinacria fertile e assolata –

Come gli antichi invasori

Dal popolo presero, senza mai nulla dare.

Mosso da spirito gattopardesco,

forte di verghiano sentire

e di semplice ma saldo orgoglio

il contadino ogliastrese

"NO" disse all’oppressore

Rivendicando il vento garibaldino

Di giustizia e libertà.

Il tempo odierno

Chiama l’Ogliastro Bolognetta.

Segni di capitalistico eccesso

Emergono ovunque:

le troppe macchine,

i cimiteri d’auto lungo la scorrevole,

le vuote lattine onnipresenti,

l’obsolescenza programmata delle cose,

l’inquinamento dei rumori

unito a quello dello spirito.

Ecco allora profilarsi

Una presenza, in odierno pericolo:

meno invisibile delle invasioni d’allora

ma non per ciò meno minaccioso.

Scambiare il possesso delle cose

Per le antiche virtù

Scordando che furono quelle le virtù

A render saldi contro l’invasore.

Offro all’Ogliastro questo auspicio:

non si scambino le cose per virtù,

non si soffochi nel cemento la campagna.

Radicato nella terra l’ulivo,

gentile come la foglia che volta lo scirocco,

nobile e forte come i suoi vulcani,

sensuale come il sole che accalda e acceca,

il popolo ravvivi invece

la fiaccola dei vespri e dei picciotti,

i valori di decenza, giustizia e libertà.

ROSANNA MULAZZI GIAMMANCO



 

 

 

 










26 febbraio 2014

     IO TI SBATTEZZO...

Come diventammo bolognettesi (a cura di Santo Lombino)

1.   La storica seduta
 Nell’autunno del 1882 il comune di Ogliastro proviene da una crisi amministrativa, una delle tante. L’ultima della serie è emersa con le dimissioni, nell’agosto dell’anno 1880, del sindaco Francesco Mosca, già sindaco negli anni ’60, insediatosi solo un anno prima. Comunicò al prefetto le dimissioni motivate da “affari suoi particolari” e dalla mancanza di collaborazione dei due assessori titolari, Carmelo e Rosario Monachelli, che non partecipavano più alla gestione del Comune. La decadenza dei due, seguita dalle dimissioni di altri due componenti della giunta, porterà all’ennesimo commissariamento del comune, affidato stavolta alle cure del funzionario governativo Chiarchiaro. Il cui nome ricorda un passo non proprio allegro de Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia e il proverbio: Ci dissi lu cucco a li cuccuotti /a lu Chiarchiaru nni viremu tutti.
Il Consiglio comunale di Santa Maria di Ogliastro veniva convocato alla data dell’8 ottobre 1882 dal notaio Vincenzo Benanti, facente funzione di sindaco, da poco confermato sovrintendente scolastico delle scuole locali, indicato da un rapporto riservato dei locali carabinieri come “capo della mafia locale”. All’ordine del giorno della seduta, una decisione importante: il cambiamento della denominazione del comune da quello di S. Maria di Ogliastro in quello di Bolognetta. Oltre a Benanti, erano presenti alla seduta i consiglieri Giuseppe Arrigo, Saverio Bongiorno (parente degli antenati di Mike Bongiorno, emigrati nel 1835 a Campofelice di Fitalia...), Antonino, Ciro e Rosario Benanti, Giuseppe Di Salvo (Tumminìa), Pietro Graziano (che sarebbe morto qualche anno dopo in tragiche circostanze a Mezzojuso) , Calcedonio Machì (cui è dedicata oggi una strada), Giuseppe Macagliotto, Tommaso Malleo, Giuseppe Milazzo (cassiere della Congregazione di Carità, un ente comunale di beneficenza), Francesco Orobello. Tutti approveranno la proposta, e dal primo gennaio successivo la delibera diventerà esecutiva. Assenti risultano due consiglieri: il proprietario terriero Francesco Lo Brutto ed il sacerdote Ferdinando Romano. A certificare l’atto, il segretario Giovanni Italiano, nativo di Belmonte Mezzagno, nominato il 29 gennaio dello stesso anno.

2.   Ragioni ufficiali e ragioni vere
A quali cause è da attribuirsi la decisione del Consiglio comunale? Nel verbale della seduta si afferma in primo luogo che il notaio Benanti, esprimendo la volontà dell’intera cittadinanza, propone all’assemblea civica di mantenere gli impegni presi nel lontano 1600 dal fondatore barone Marco Mancino nei confronti del venditore all’atto della stipula del contratto di compravendita. Si trattava quindi non di una scelta arbitraria, ma di una consapevole e meditata scelta di “ritorno al principio”, in quanto il nuovo nome era in realtà quello che il centro abitato avrebbe dovuto assumere al momento della fondazione, avvenuta all’inizio del XVII secolo. Nel citato atto di vendita del “feudo di Casaca col fondaco”, infatti, era esplicitamente previsto che “ipsam terram nominare et vocare Bolognetta”, cioè che il “paese stesso si nominasse e chiamasse Bolognetta”, dal nome della potentissima famiglia Beccadelli-Bologna o Bologni, venditrice del feudo. Quando poi, nell’ottobre 1603 l’acquirente Marco Mancino, divenuto barone del feudo, decise di edificare un luogo di culto dedicato alla Madonna del Carmelo che costituisse punto di attrazione per i nuovi abitanti, la situazione era già mutata: il signore del comune feudale fece annotare ben due volte nell’atto di fondazione della chiesa, che egli “nel detto feudo dello Ogliastro, diocesi di Palermo, cominciò a costruire e costruisce la detta terra (o centro abitato) chiamato Santa Maria de lo Ogliastro ovvero Bolognetta”. Quindi tre anni dopo la compravendita, le due denominazioni già convivevano, e del resto abbiamo ragione di ritenere che abbiano convissuto per un certo periodo. Con il passare del tempo, poi, era prevalso l’uso di chiamare il paese con il riferimento all’immagine della Madonna e all’albero di olivo selvatico, oleaster, presente vicino all’edificio del preesistente fondaco oppure, secondo quanto recita la delibera del 1882, “dinanzi una casetta che il detto Signore Marco Mancini aveva fatto edificare”.
Se tale era la ragione, non si spiega, però, come mai il ripristino dell’antico nome avvenga proprio nel 1882 e non in altro tempo.
Una seconda ragione inserita nel verbale di quella “storica” seduta, ragione dichiarata senz’altro di secondaria importanza dallo stesso sindaco proponente, rispondeva  ad una preoccupazione di natura pratica: secondo Benanti, il danno arrecato al pubblico e al privato dalla presenza, nella toponomastica nazionale, di altre località con nome identico o assai simile, per cui gli scambi e gli equivoci in ogni settore (in primo luogo in quello postale) erano frequenti e forieri di gravi problemi: ”per esservi nel Regno più comuni che portano la stessa denominazione accadono continuamente degli intollerabili sconci,… inconvenienti,… equivoci”. In effetti, col termine Ogliastro si indicavano almeno cinque feudi e territori in Sicilia, mentre in provincia di Salerno esisteva un altro comune di Ogliastro (a cui fu aggiunto il termine “Cilento” per evitare confusioni). In Sardegna è presente il territorio dell’Ogliastra, mentre in Corsica il toponimo è attribuito ad un minuscolo centro abitato.
Secondo un’altra ipotesi, la decisione dell’assemblea municipale si potrebbe attribuire ad un rigurgito di anticlericalismo, tipico del secondo Ottocento, i cui sostenitori non avrebbero gradito il riferimento alla Madonna nella denominazione del paese. L’assenza del sacerdote Ferdinando Romano, classe 1812, alla seduta consiliare, sarebbe un indizio a conferma di tale ipotesi. Ipotesi che però parrebbe da scartare, specialmente per il fatto che all’epoca della deliberazione il nome del comune, sia nell’uso corrente sia nella denominazione ufficiale (vedi timbri, carta intestata, carte geografiche, etc.) era stato semplificato in  “Ogliastro”o “Lagliastro”, senza più l’iniziale riferimento religioso.

3.   Rivolta popolare e delitti eclatanti
 Altra motivazione della decisione, assente dalla deliberazione ufficiale, è invece presente nella tradizione orale. Essa fa riferimento, per spiegare la scelta del cambiamento, alla cattiva fama acquisita dalla popolazione del comune in seguito ai cruenti fatti del settembre 1866, quando morirono otto carabinieri e un abitante di Oglistro durante la rivolta detta del “sette e mezzo”, svoltasi a Palermo e circondario. Si voleva in sostanza evitare, da parte del notaio Benanti e dei consiglieri comunali, che il ricordo della strage di militari nella sommossa popolare si riverberasse sulle generazioni successive.
Quando un impiegato pubblico o, a maggior ragione, un componente delle forze dell’ordine, veniva assegnato ad Ogliastro, era preso dal panico, appena sapesse di quanto accaduto in paese nel settembre 1866. “Quando andavamo a fare il servizio militare fuori dalla Sicilia, appena nominavamo il nostro comune d’origine - così raccontavano i nostri nonni - venivamo subito individuati e additati come i barbari assassini dei carabinieri”. Per cancellare tale vergognosa nomèa e dar vita ad un nuovo inizio, si sarebbe deciso dunque, a distanza di 14 anni dalla cruenta rivolta la ripresa dell’antico toponimo Bolognetta. Però 14 anni sembrano a chi scrive un po’ troppi per indurre gli amministratori a tale passo.
Molto probabilmente sulla scelta del consiglio comunale e del notaro Benanti, incideva, oltre al ricordo dell’assassinio dei componenti dell’Arma.  una serie di eventi tragici degli anni più vicini al 1882: tra essi, il furto in casa del proprietario Giovanni Leopoldo Monachelli, conclusosi con l’uccisione della moglie di costui, il ferimento e la morte del sacerdote Francesco Orobello e dell’ex frate Gioacchino Spinnato e poi il delitto di natura politico-mafiosa che eliminò l’ex sindaco Giorgio Verdura, caduto nel maggio 1879 in un agguato di cui proprio Benanti ed i suoi fratelli Antonino e Rosario erano stati i principali indiziati. Lo stesso verdura aveva tra l’altro chiesto, un anno prima, lo stanziamento a Ogliastro di un distaccamento dei bersaglieri per garantire l’ordine pubblico assai compromesso.

4.   I precedenti ed il decreto del Re
Il cambiamento del nome di Ogliastro fa pensare, per analogia, a quello occorso, nel febbraio di tre anni prima, al piccolo centro abitato di Salvia, in provincia di Potenza, che era stato costretto  dal governo nazionale a cancellare il suo nome per  assumere quello di “Savoia di Lucania”: unica colpa del comune, quella di aver dato i natali all’anarchico Giovanni Passannante, cuoco di mestiere, che aveva cercato di uccidere, con una coltellata non andata a segno, sua maestà il re d’Italia Umberto I di Savoia in visita nella città partenopea.
Non abbiamo (finora) documenti su eventuali pressioni dall’alto per la cancellazione del nome Ogliastro, ma è difficile pensare che tale decisione sia stata presa senza impulso o senza una preventiva consultazione con la prefettura di Palermo, terminale del governo nazionale.
Quel che è certo è che, a seguito della delibera comunale, il guardasigilli Zanardelli e il capo del governo Agostino Depretis, che era anche ministro degli interni,  sottoposero il 30 dicembre 1882 alla firma del sovrano Umberto I il decreto n. 1169/serie terza, secondo cui dal 1 febbraio dell’anno successivo il paese avrebbe assunto la denominazione di nome di Bolognetta, che qualcuno ancora oggi scambia per un borgo di Bologna, come la Bolognina.










REVERNDO VINCENZO MALLEO
  Insegnante nella scuola primaria di Bolognetta e presidente della Congregazione di Carità





LA SCUOLA NELL’OTTOCENTO


1. Maestri, preti e malattie Le prime notizie sulla scuola ad Ogliastro (poi Bolognetta) risalgono al 1850, anche se pare che l’attività fosse cominciata qualche anno prima. In realtà la scuola primaria era stata imposta in tutto il regno da Ferdinando di Borbone già nel 1818. Secondo la Commissione Suprema di pubblica istruzione, il programma scolastico doveva contemplare “il leggere e scrivere correttamente; l’istruzione morale, con il catechismo di religione e i doveri sociali del cittadino”. I maestri dovevano insegnare ai bambini “l’obbedienza al sovrano, alle sue leggi, ai suoi magistrati ed il culto e la venerazione per la Santa Religione”. Si comincia a parlare nei documenti, a partire da questi anni. di scuola lancasteriana. Si tratta di scuole con un metodo di insegnamento innovativo che viene dall’Inghilterra. Tale metodo proposto dal pedagogo Lancaster, prevede il mutuo insegnamento tra gli alunni, che, stando in un’unica aula, vengono divisi in gruppi per età e preparazione e vengono seguiti da un unico maestro. Gli alunni di livello inferiore vengono seguiti da un allievo di livello superiore che funge loro da tutore. Al momento dell’unità d’Italia, tale metodo pedagogico, “contava scuole pressoché in tutti i comuni siciliani”, compreso Ogliastro. Il sindaco del paese Stefano Campo comunica alle superiori autorità, nell’aprile 1850, che a Ogliastro l’unica persona che può assumere il ruolo di precettore scolastico (cioè maestro) è il sacerdote Gioacchino Malleo, che per motivi di salute non vuole più esercitare tale carica. Ad insegnare, secondo il sindaco, potrebbero essere don Stellario Pravatà, don Filippo Pravatà e don Antonino Zerilli, ma essi sono sprovvisti di “patente” per l’insegnamento. Su quest’ultimo, che alcuni anni dopo sarà assessore e sindaco, si scaglia un esposto anonimo. Zerilli ha sempre vissuto ad Ogliastro ed ha rivestito l’abito di monaco cappuccino, che ha poi lasciato “senza un’esplicita motivazione”. L’anonimo lo incolpa di una condotta che “non è molto raccomandabile” senza specificare bene quale fosse e, per quanto riguarda la scuola, lo accusa di esercitare privatamente la professione di insegnante, anche se ciò è vietato dalla legge. Nei mesi successivi, l’Intendenza insiste nella richiesta di premere sul prete Malleo per fargli svolgere il servizio di insegnante e, nel mese di ottobre, chiede al sindaco se il reverendo sia guarito dalla malattia di cui sopra. Il capo dell’amministrazione comunale risponde subito che il sacerdote si è ristabilito e potrà rientrare in servizio nel mese di novembre. Ma il problema è un altro: l’attività didattica può cominciare solo se si riusciranno a comprare banchi, lavagne e altri oggetti “indispensabili per lo svolgimento delle lezioni”. Del resto la scarsità di mezzi era un fenomeno comune a tantissime scuole comunali del regno. “Le lezioni - scriveva nel 1855 il consultore di Stato, Capomazza – si svolgevano spesso nella casa del maestro, in mezzo all’andirivieni dei familiari, dei servi, dei lavoratori di campagna... Mancavano gli oggetti scolastici, libri, lapis, fogli di carta; peggio: in non poche scuole mancavano gli scanno ove sedere e le tabelle necessarie al metodo normale”. Due anni dopo, la scuola ad Ogliastro non si è ancora aperta, sempre a causa dell’assenza di Malleo. Nel marzo 1852, anche per i ripetuti solleciti effettuati dall’arciprete Monachelli, il Decurionato, vale a dire il consiglio comunale, propone una terna di candidati per il ruolo di precettore. Tra i sacerdoti don Mario Bannò, don Giuseppe Scimeca e don Michele Modica, l’arcivescovo di Palermo sceglierà il primo, che verrà confermato anche dal vicario generale della diocesi. Alla fine di giugno 1852, tutto sarebbe pronto per il giuramento del nuovo precettore ma don Mario Bannò, prima di giurare, vuole essere rassicurato dal secondo eletto (= assessore) Zerilli sulla presenza dell’arredo necessario alle lezioni. Forse a causa della prolungata chiusura della scuola, gran parte degli strumenti necessari “non esistono più” e i banchi rimasti sono “da rinnovare”. Il problema rimane insoluto per altri due anni, talché il 10 giugno 1854 la Commissione suprema di pubblica istruzione ed educazione chiede all’Intendente di prendere provvedimenti per porre fine alla chiusura della scuola primaria di Ogliastro, l’unica del paese, dovuta alla mancata assunzione della carica da parte di padre Bannò. Passeranno tre mesi, si approssima l’inizio del nuovo anno scolastico ed il sindaco comunica il 14 settembre che il sacerdote Bannò ha rinunciato al posto di insegnante adducendo due motivazioni: la prima fa riferimento alla carica da lui assunta, quella di cappellano sacramentale della Chiesa madre, la seconda lamenta lo stipendio molto basso che gli verrebbe assegnato. Finalmente, nelle ultime settimane della primavera del 1855, la Commissione suprema designa l’ogliastrese don Filippo Pravatà a precettore della scuola primaria del Comune e nello stesso tempo invita l’Intendenza ad aumentarne lo stipendio, che risulta ancora “di soli 23,20 ducati”: cosa che avverrà solo nel novembre di cinque anni dopo.

  2. Magri stipendi e anziani maestri

Lo stipendio di chi insegnava variava da l
uogo a luogo. In quel periodo a Palermo il minimo era di 17 ducati, il massimo di 192, il medio di 42. Quindi ad Ogliastro la paga era ad un livello poco maggiore del minimo, che non consentiva nessuna dignità e spingeva il maestro a ricorrere al doppio lavoro; anzi “spesso l’insegnamento costituiva il guadagno accessorio per fabbri, calzolai e sarti... Non deve allora stupire la scarsa considerazione in cui era tenuta (e sarà tenuta per tutto l’Ottocento) la figura del maestro: condizionato politicamente, reclutato arbitrariamente, controllato all’apparato confessionale, pagato poco e senza regolarità...”. Don Filippo Pravatà, comunque, non ha la patente di precettore e il sindaco Giuseppe Benanti gli pone un ultimatum: deve acquisirla entro otto giorni, pena la perdita dell’incarico. È verosimile che alla fine tale patente sia stata conseguita, tanto è vero che troviamo il maestro Pravatà ancora attivo nell’insegnamento nell’anno 1858, salvo cadere in malattia negli ultimi mesi di quell’anno. Ritenendo che lo stato di salute potesse essere ripristinato, il Comune gli paga ugualmente lo stipendio per questo periodo di forzata assenza. In seguito, Luciano Monachelli-Traina, facente funzione di sindaco, decide però di interrompere il pagamento, anche in considerazione dell’età “molto avanzata” del maestro. Durante il periodo di malattia, anche in seguito a un invito della Commissione suprema per l’istruzione, il maestro ha chiesto e ottenuto che suo nipote Antonino Pravatà prendesse il suo posto, anche se questi insegnava a casa propria e non nei locali predisposti dal Comune. A tal proposito, qualche mese dopo la fine dell’anno scolastico, la Commissione suprema comunica al sindaco che “è vietato ai precettori di esercitare nella propria casa”. Quindi il maestro Antonino non può essere pagato per il periodo gennaio-aprile. Per porre fine alla questione, un sostituto definitivo viene individuato dal Decurionato nella persona di un altro Pravatà, don Francesco, che ha qualche (o tante) perplessità ad accettare l’incarico quando viene a sapere che al sostituto può essere dato uno stipendio pari ai due terzi di quello del titolare. A questo punto don Filippo Pravatà rinuncia al ruolo di titolare di cattedra “in quanto malato cronico a letto”, comunicazione che arriva qualche giorno prima dalla sua morte, avvenuta il 21 dicembre 1858. Un mese dopo, don Francesco Pravatà, “unico ad avere tutti i requisiti necessari per questo ruolo”, viene assunto dal Decurionato come nuovo maestro di scuola, con l’imprimatur del vicario generale dell’arcivescovo di Palermo. Ai vescovi era infatti delegata dal sovrano borbone la discrezionalità pressoché assoluta su ogni provvedimento riguardante le scuole comunali e i loro insegnanti, a partire dal loro reclutamento. Le cose si sono poi complicate, tanto è vero che nel marzo 1859 i “comunisti (cioè gli abitanti stessi del comune) di Ogliastro”, lamentano in un esposto il fatto che nessuno dei tre candidati all’insegnamento nelle scuole di Ogliastro potrebbe assumere la carica: don Francesco Pravatà è il padre del cancelliere comunale don Stellario Pravatà ed è anche componente della Commissione amministrativa, deputato delle strade provinciali, contabile del cassiere e collettore dei dazi civici; Antonino Pravatà, è “fideiussore dei dazi civici”; il terzo candidato, don Benedetto Inzerillo sarebbe incompatibile perché è già “addetto alla notazione dei transitanti che pernottano nelle locande”.


  3. La scuola serale e quella femminile

Le difficoltà della scuola primaria si accompagnano a quelle della scuola serale. In tre successive sedute, tra metà aprile e fine giugno 1856, il Decurionato di Ogliastro delibera che non è opportuno aprire una scuola serale in aggiunta a quella mattutina. Si avanzano due ragioni: la prima è che “i figli dei villici e degli artigiani” frequentano già la scuola diurna; la seconda, più plausibile, è che il Comune non può o non vuole sostenere la spesa aggiuntiva che tale tipo di scuola richiederebbe. Non sappiamo come siano andate a finire le cose, ma è certo che qualche anno dopo la scuola serale fu aperta, come dimostra la decisione presa dal Decurionato nel febbraio 1857 di... fornire l’olio per accendere i lumi di quelle aule. Negli stessi anni, l’amministrazione comunale, su sollecito dell’Intendenza provinciale, si occupa di contribuire all’educazione delle fanciulle. Nel maggio 1851 la signora Vincenza Zizzo in Schifano chiede una remunerazione per la sua attività di educatrice delle fanciulle. Il Decurionato risponde positivamente (anche se a maggioranza), votando una gratificazione di tre ducati per la signora, che a fine agosto verrà nominata ufficialmente educatrice comunale per fanciulle. Nella seduta di novembre, non sappaiamo in seguito a quale richiesta dall’alto, il Decurionato propone all’Intendenza una terna di donne: oltre a Zizzo, Maria Valenti e Maria Rosa Parisi in Lombino. Il civico consiglio esprime preferenza per la prima, “perché ha già svolto questo ruolo e perché ha sempre assunto una condotta ineccepibile”. Concordano con tale indirizzo il vicario generale della diocesi di Palermo e l’arciprete Giuseppe Monachelli. Quest’ultimo, in una nota del maggio 1852, sottolinea che la signora Vincenza Zizzo “sa leggere e scrivere, mentre le altre due no”, ed ha inoltre una decennale esperienza nel ruolo di educatrice, pur avendo avuto la “bassissima rimunerazione” di un’onza all’anno.


4. Pochissimi alunni, tanto analfabetismo

Il 15 gennaio 1860, proprio all’inizio dell’anno in cui il regno delle Due Sicilie sarebbe crollato, il Decurionato di Ogliastro decise di dare un premio agli scolari delle classe prima e seconda che si fossero mostrati “più meritevoli e con maggiore ingegno”. La civica amministrazione non dispone di una casa comunale, ma dal suo magro bilancio deve tirar fuori l’affitto per gli uffici municipali e per i locali che ospitano le due distinte scuole: la scuola elementare rurale diurna maschile e quella femminile, nonché lo stipendio dei bidelli e dei maestri. Nel 1876 il delegato Patricolo, commissario al Comune, nella sua relazione finale afferma con molta amarezza che la pubblica iscrizione non è apprezzata ad Ogliastro, come dimostra “lo sparutissimo numero degli allievi e delle allieve”. Sono infatti circa 150 i bambini e le bambine che, in età d’obbligo, non frequentano le scuole comunali. Per incoraggiarne l’ingresso nella scuola, il funzionario ha dato disposizioni affinché fossero scelti nuovi locali adatti all’educazione dei ragazzi. Il sito precedente era in “condizione talmente infelice da destare viva sorpresa all’ispettore stesso” che venne a visitarli. Il 10 dicembre 1878 il Commissario delibera il “riscaldo” della scuola elementare maschile e femminile con “due salme di carbone” da comprare con lo stanziamento di quattro lire. I trasferimenti dello Stato per l’istruzione ammontano in quel periodo a lire 228, 69 annue. Nel 1885 si raggiunge la somma di 250 lire. Negli anni ottanta l’affitto dei locali per le classi elementari destinate ai maschi costa al comune 29,50 lire al mese, mentre al maestro Calogero Cigno il bilancio comunale destina 150 lire annue. Egli è tenuto a dare lezioni in seconda classe ai bambini che hanno superato la “classe rurale unica”, ampliando il programma svolto al livello di seconda elementare e, occorrendo, di terza classe. A far da supplente durante le assenze di Cigno, sarà chiamato il sacerdote Vincenzo Malleo, per tanti anni inossidabile presidente della Congregazione di Carità. Nel 1888, il maestro Cigno sporge reclamo per “motivi d’igiene pubblica”: in seguito ad esso vengono abbandonati per la scuola maschile i locali presi in affitto dal possidente Rosario Benanti e sostituiti con altri di proprietà del signor Giuseppe Cortese, per lire 60 all’anno. L’analfabetismo era una piaga molto diffusa ed i bambini maschi andavano prestissimo a lavorare nel campi: nel 1892 il commissario Ugo Lombardi denuncerà il fatto scandaloso che solo tre alunni frequentavano la scuola elementare maschile e 14 alunne la classe femminile.


  5. La scuola-carcere e la guerra

Alcune aule della scuola elementare sono ubicata in un ambiente poco accogliente, tanto che in paese è chiamato “carcere”. Le stanze utilizzate sono contigue all’abitazione del segretario comunale e affidate ad un custode, che abita con la famiglia alcune stanze affittate dal comune al costo di duecento lire all’anno. Durante l’anno scolastico 1890-91 la maestra Francesca Giuffrida, “povera orfana”, nativa di Bolognetta, che insegna nel ramo femminile della scuola comunale, rifiutava di recarsi ad insegnare nel locale assegnato, (la cui pigione annuale, pagata a Ignazio Romano, era passata nel 1885 da 72 ad a 80 lire), “essendo molto ristretto”. Preferisce fare lezioni “a casa propria”, ove provvisoriamente le si era permesso di insegnare. Dopo un’ispezione, però, la maestra è dichiarata “dimissionaria volontaria” dal Regio Provveditore agli studi. Il consiglio comunale è chiamato a deliberare sull’atto di insubordinazione dell’insegnante Giuffrida, che rischia di rimanere “senza ufficio e stipendio”. La quasi totalità dei componenti dell’organo comunale, però, si schiera decisamente dalla sua parte e la maestra, considerata “già punita”, viene reintegrata dall’anno successivo nelle sue mansioni. Nell’anno scolastico 1892-93 la scuola maschile “è stata completamente chiusa per malattia del maestro”, Calogero Cigno, settantenne, che “giacque completamente e dolorosamente a letto” per diversi mesi, ma ricevette ugualmente lo stipendio. La morte di Cigno avverrà proprio nei giorni conclusivi dell’anno scolastico, il 13 giugno 1893 a Palermo, dove era ricoverato. Il nuovo insegnante sarà tale Francesco Lattuada, vincitore dell’apposito concorso, la nuova maestra invece Maria Parrino di Palazzo Adriano. Dureranno poco entrambi, e verranno licenziati, non sappiamo perché, nel marzo 1894. All’inizio del nuovo anno scolastico, saranno nominati titolari delle due cattedre di insegnamento Gaetano Tessitore, da Misilmeri, con una remunerazione annua di 700 lire e la signorina Francesca Giuffrida, che, con evidente discriminazione di genere allora usuale, avrà uno stipendio di 560 lire. Il bilancio preventivo del Comune prevede per il 1896 lo stanziamento di cento lire per la scuola serale destinata agli adulti; poco più di 55 lire al mese costituiranno lo stipendio del maestro Tessitore e lire 46, 60 alla maestra Giuffrida. Quest’ultima, dopo quindici anni di servizio come insegnante, chiede, nell’aprile 1897, di avere la nomina a tempo indeterminato: ma il consiglio comunale con inspiegata fermezza rifiuterà di accogliere tale sensata e comprensibile richiesta. Riceverà un significativo aumento di stipendio tre anni dopo. Il verbale della seduta riporta il fatto che. al momento della delibera, i consiglieri comunali Giuseppe e Salvatore Giuffrida, parenti della maestra, escono dall’aula. Il maestro Tessitore, avendo insegnato anche nella scuola serale per adulti, otterrà nel 1905 una gratificazione straordinaria del consiglio comunale dell’ammontare di 50 lire. Continuò ad insegnare fino al 1915, quando partì richiamato alle armi per la prima guerra mondiale: in quella occasione la scuola maschile dovete chiudere i battenti per mancanza di insegnanti, la femminile continuò le attività.


6. La guardia campestre-sovrintendente

Secondo le leggi del Regno d’Italia, ogni anno il consiglio comunale si premura di nominare un soprintendente per le scuole elementari ed una ispettrice per le scuole femminili. La prima carica viene affidata per decenni al notar Vincenzo Benanti, anche quando è sindaco, negli anni ottanta del secolo. Nel 1889 sarà nominato sovrintendente Matteo Romano. figlio di Camillo (già sindaco, già predidente del Comitato rivoluzionario di Ogliastro al tempo della spedizione dei Mille) e fratello di Ignazio, mentre per le scuole femminili sarà ispettrice Francesca Monachelli sposata Malleo, confermata anche per l’anno successivo. Nel 1890 sarà nominato sovrintendente per il ramo maschile Rosario Bannò figlio di Lorenzo. Due anni dopo il delicato incarico viene affidato a Giuseppe Scimeca, da poco nominato... capo del corpo delle guardie campestri. Sentendosi probabilmente poco ferrato in materia di istruzione pubblica, Scimeca pone come condizione per accettare il compito, la collaborazione del Direttore didattico nonché segretario comunale Pietro Scimonelli, che ha al suo arco “ben dieci anni di pubblico insegnamento”. Contestualmente, la sorella Maddalena Scimeca, di mestiere sarta come il padre Vito Scimeca, avrà affidata dal consiglio comunale la supervisione delle scuole femminili.
04 febbraio 2014 

L’assassinio di Giorgio Verdura(1879)



Un delitto politico-mafioso nell’Ottocento 
(di Santo Lombino)


1. La denuncia del sindaco.
Dopo il rifiuto di diversi “notabili” di Ogliastro ad assumere la carica di sindaco del paese, il prefetto di Palermo punta sull’ex-brigadiere Giorgio Verdura, nominandolo sindaco per il triennio 1876-78.
Verdura, a giudizio del questore di Palermo, gode della pubblica stima, ha una buona posizione economica e sociale e ha fatto parte del corpo dei Reali Carabinieri per tredici anni. Sempre secondo la questura, pur essendo originario di Messina, egli ha in Ogliastro “una parentela stimata e piuttosto estesa”, avendo sposato tale Maria Lo Faso fu Carmelo. Inoltre – elemento nient’affatto trascurabile – Verdura viene considerato estraneo alle fazioni in lotta ed allineato su posizioni filo-governative, il che non dispiace alla questura palermitana.
Tuttavia l’amministrazione Verdura entra in crisi dopo la campagna elettorale per il rinnovo del consiglio comunale. Vengono rivolte pesanti accuse al sindaco, che “per smania di potere” si è circondato persino di individui “ammoniti e pregiudicati”. A partire dal 24 luglio 1878 il sindaco Verdura invia alle autorità del mandamento, della provincia e del circondario una circostanziata denuncia contro il notaio Vincenzo Benanti, che i carabinieri indicheranno nell’aprile 1880 come capo della mafia locale, i suoi fratelli Antonino e Rosario, i fratelli Giovanni e Giuseppe Monachelli, il dottor Antonino Calivà, tutti appartenenti al cosiddetto “partito” Benanti, all’opposizione del sindaco. Verdura li accusava di aver ideato il suo assassinio e quello del farmacista Lorenzo Bannò, la devastazione nelle proprietà di campagna di Ignazio Romano, collettore delle imposte e tesoriere comunale. Gli esecutori materiali del progetto criminoso erano indicati in tali Giampaolo Natale di Rosolino e Francesco Di Fresco figlio di ignoti, entrambi domiciliati in Ogliastro, con la promessa di 300 lire di ricompensa. Non sappiamo come e da chi i Benanti siano venuti a conoscenza dell’esposto del sindaco, fatto sta che la loro reazione è forte e decisa.
2. La reazione dei Benanti
Meno di dieci giorni dopo, il notaio Vincenzo Benanti prende carta e penna anche a nome dei fratelli per scagliare un’infuocata contro-denunzia inviata al prefetto di Palermo: viene descritta l’ascesa del sindaco come persona al di sopra delle fazioni locali ed evidenziata la successiva delusione “dell’elemento intelligente” del paese -- cioè dei notabili -- per il comportamento di Verdura. Quest’ultimo viene infatti accusato di essersi montato la testa e, una volta diventato sindaco, di “aver fatto troppo sciupìo della fortunata autorità per caso acquistata” e di aver perseguitato onesti cittadini con “ingiuste misure di rigore”. Il capo dell’amministrazione comunale, secondo Benanti, aveva addirittura preso di mira il brigadiere dei carabinieri in carica Emilio Marufati, chiedendo contro di lui misure disciplinari perché avrebbe svolto propaganda elettorale a favore dei suoi avversari politici. A questo proposito, il notaio informa anzi apertamente il prefetto di “avere spiegato ogni impegno verso il comando dei carabinieri, rilevando come in nulla il brigadiere (tale Marufati) avea demeritato”, confermando così candidamente di avere il potere di esercitare pressioni sugli alti gradi dell’Arma, utilizzando i suoi forti legami politici a favore del comandante della stazione dei carabinieri. A giudizio del ricorrente, Giorgio Verdura si era trasformato in un campione di ingiustizia e opportunismo, dimostrandosi “funzionario non ispirato al sentimento del proprio dovere ma spinto da un solo fine: l’ambizione... funzionario che valendosi della sua qualità si arma contro il cittadino per dare sfogo alla più turpe passione dell’odio”. A rendere più fosco il quadro, il notaio Benanti fa sapere al rappresentante del governo che il sindaco non si è peritato di far leggere al fratello Rosario la denunzia e di informare Ignazio Romano che era intenzione dei Benanti procurare il taglio delle sue coltivazioni. Inoltre, con finta ingenuità Verdura avrebbe ironicamente ringraziato un ammonito, tal Giuseppe Ficarrotta, perché si era diffusa la voce che questi avesse rifiutato l’offerta fattagli dai mandanti. Ovviamente, Ficarrotta aveva riferito la notizia agli avversari del sindaco... A sostegno della sua accusa, Vincenzo Benanti riporta l’elenco di chi è pronto a confermarla di fronte alle autorità: Santi Adorno, segretario comunale,  “che scrisse la denunzia sotto il dettato del Verdura e ne spedì le copie”, Ignazio Romano, esattore delle imposte, presunta terza vittima designata, l’avvocato Antonino Gargano, “che raccolse dalla bocca del Romano la narrazione della infame trama”, Giuseppe Ficarrotta di cui si è detto, Giuseppe e Giovanni Monachelli, Antonino Calivà, gli altri fratelli Benanti.
3. La destituzione e il commissariamento
A questo punto, il prefetto invia un funzionario ad Ogliastro che ascolta dal sindaco la conferma dei termini della grave denunzia presentata e l’aggiunta che le notizie sul “minacciato attentato” erano a lui pervenute, in via confidenziale, da tale Antonino Vilardi. Il prefetto decide di aprire un procedimento penale, alla fine del quale si riserva di prendere gli opportuni provvedimenti. Egli attribuisce l’esposto del sindaco al clima infuocato instauratosi nell’ambito amministrativo, in cui “vari partiti si contendono accanitamente il governo della cosa comunale, non rifuggendo dai più biasimevoli maneggi e dalle arti più basse e malvagie per raggiungere l’intento”. Al partito del sindaco, circondatosi di “aderenti nemici d’ogni disciplina e non tutti immuni da precedenti penali”, si opponeva il partito Benanti-Monachelli, “forte di censo, e di capacità superiore, il quale andò mano a mano acquistando di vigore e circondandosi di largo satellizio (cioè seguito) fino a tanto che con l’esito delle ultime elezioni ottenne una notevole maggioranza di voti nel seno del consiglio”. La lotta tra le due fazioni ha prodotto “un grave disordine nell’azienda comunale, un malcontento generale nel paese verso gli attuali amministratori, segnatamente verso il sindaco, giudicato adesso “uomo pusillanime ed assai limitato di capacità” che “non offre sufficienti garanzie di buona gestione ed è pressoché esautorato”. Il prefetto si era convinto che le accuse del sindaco fossero nient’altro che “una frottola per malevolenza e per passione” dettata “da rimorsi di parte e da ragioni di inimicizia personale”, quindi interamente false. Tanto più che qualcuno lo aveva informato che il sindaco Verdura, pochi giorni dopo l’invio della denunzia, aveva concluso una trattativa con il notaio Benanti e, alla presenza di due testimoni, aveva ritrattato per  iscritto l’esposto precedente, arrivando a dichiararlo falso, calunnioso e legato “a sentimenti di mal composta vendetta”. Tali notizie, unite all’esito negativo dell’indagine prefettizia indusse infine il rappresentante del governo a chiedere, il 26 settembre, la rimozione di Verdura dall’ufficio di sindaco e lo scioglimento del consiglio comunale.
In seguito alle decisioni ministeriali, viene inviato dal prefetto l’ennesimo delegato straordinario nella persona dell’avvocato Eugenio Dionese, che si mette all’opera per affrontare le questioni amministrative più urgenti.
La sua gestione della cosa pubblica viene in paese universalmente riconosciuta quanto mai produttiva ed utile, a tal punto che un gruppo di cittadini sottoscrive una petizione al governo nazionale perché egli venga confermato per un periodo maggiore dei tre mesi previsti dalla legge. La richiesta è motivata da un lungo elenco di benemerite realizzazioni e buoni propositi di Dionese, tra cui “il progetto per la costruzione di un tramway a trazione meccanica, l’utilizzamento (!) di non poche terre abbandonate, il censimento di molte terre usurpate, la concessione di suoli nel campo santo comunale per sepolture gentilizie, il richiamo dei conti finanziari a taluni ex gestori che pel passato, per vedute di amicizia e di parentela si lasciavano nella più pretta dimenticanza”. Nell’eventualità in cui la sua missione si fosse interrotta, i firmatari presagivano nefaste conseguenze: “non si verrà mai a fine per la compilazione di ruoli per la tassa focatico... Non si effettuerà lo appalto del dazio di consumo per il quale questo regio delegato ha iniziato delle vantaggiose trattative... non si costituirà la strada che conduce al cimitero e non si sosterranno altre tre vie che conducono in una vicina frazione di questo comune... Nessuno più brigherà per la vitalissima questione della circoscrizione territoriale per la quale questo sig. r. delegato ha fatto molto riscontrando alle ingiuste pretese di taluni comuni che chiedono l’aggregazione di taluni territori di questa, e nel contempo non ha lasciato di far valere giuste ragioni onde aggregare a questo territorio taluni feudi attualmente catastati ad altri comuni”. La richiesta portava la firma di 26 cittadini ogliastresi, molti dei quali tengono a qualificarsi ex-consiglieri e assessori comunali, appartenenti alle diverse componenti politiche. La compresenza di esponenti dei due “partiti” Benanti e Verdura fa di questo documento una sorta di “patto di pacificazione” tra avversari politici, decisi finalmente ad abbandonare lo scontro diretto  e ad affidare concordemente la gestione dei problemi del paese ad una autorità esterna, ritenuta al sopra delle parti .

4. L’uccisione di Verdura
Nel frattempo, pare che Giorgio Verdura, non più sindaco, si fosse convinto a ritrattare la denunzia, o per amore di pace, oppure nell’illusione che la scoperta del complotto potesse indurre gli avversari a desistere dai loro propositi, o ancora rassegnato di fronte alla impossibilità di fornire prove convincenti.
I fatti successivi dimostrarono fondati i suoi timori.
Il 7 maggio 1879, di primo mattino, l’ex-sindaco si reca a Palermo con un gruppo di compaesani. Nel corso del cammino, accompagnato a tale Vincenzo La Barbera, si distanzia dalla comitiva di circa trecento metri. All’improvviso, da un campo coltivato a frumento vengono sparati i proiettili di un fucile, che vanno a colpirlo alla gamba destra e alla coscia sinistra. La Barbera si getta subito a terra, mentre dal gruppo tale Francesco Lo Brutto (molto probabilmente consigliere comunale) risponde al fuoco e “spingendosi avanti tirava due colpi di revolver verso un tale che dal punto dell’esplosione davasi a gran corsa a traverso la campagna”. I testimoni diranno che il fuggitivo era “di statura regolare, vestito di scuro” e – ovviamente -  “assai lesto”. Ferito gravemente, Verdura viene soccorso e portato all’ospedale, dove morirà alcune ore dopo, non prima di aver parlato con i parenti e gli inquirenti. In base alle sue dichiarazioni, il giudice emetteva un mandato di cattura, prontamente eseguito dai carabinieri “in persona di Ficarrotta Giuseppe fu Carlo e Giuffrida Giuseppe fu Giuseppe, ammoniti, come sospetti del crimine”. Il delegato di pubblica sicurezza di Misilmeri a casa di Ficarrotta trova solo la moglie, che dichiara che il marito era andato a lavorare in un fondo del sindaco Antonino Benanti. Alla questura risulterà però che egli era andato a “raccogliere fave in un fondo in prossimità a quello del commesso”, cioè, se non capiamo male, vicino al luogo del delitto. Naturalmente la moglie di Ficarrotta informò subito Antonino Benanti della visita avuta. Benanti, a sua volta, le consigliava di non rivelare ove si trovasse il marito e di inviare da lui eventuali inquirenti. Quando il delegato di polizia chiese al sindaco il perché di questo comportamento, egli rispose che “essendo il di lei marito... al suo servizio, gli farebbe dispiacimento che fosse stato arrestato sapendolo innocente. Il 9 maggio il giudice istruttore convoca tre persone: Francesco Lo Brutto, che aveva difeso a mano armata l’ex sindaco, Antonino Verdura, fratello del defunto e la vedova Maria Lo Faso, di anni 27. Gli ultimi due indicarono Ficarrotta come autore materiale del “truce misfatto” con la complicità di Giuseppe Giuffrida, mentre i mandanti erano da individuare nei “noti fratelli Benanti”.  Così come aveva denunciato Giorgio Verdura, circa dieci mesi prima i tre fratelli Benanti, assieme ai fratelli Giuseppe e Giovanni Monachelli e ad Antonino Calivà, “avrebbero promesso lire 300 a Ficarrotta Giuseppe, Gianpaolo Natale e Velardi Antonino per assassinare il Verdura, nonché tale Bannò Lorenzo e tagliare un vigneto di Romano Ignazio sostenitore del Verdura”. Secondo i familiari Giuffrida, “essendo una persona intima” di Lo Brutto, l’unico a sapere in anticipo del viaggio, avrebbe informato Ficarrotta. Il fratello e la moglie della vittima riferirono inoltre al magistrato che il giorno dell’assassinio lo stesso Giuffrida aveva fatto suonare a morto le campane della chiesa di Ogliastro dicendo (chissà perché?!) “al sacrestano che era morto tal Lo Cascio Giovanni tuttora vivo”.
Venti giorni dopo, il notaio Vincenzo Benanti, vedendo uscire da casa la vedova e il fratello del defunto per recarsi a testimoniare dal delegato di polizia di Misilmeri, inveisce contro di loro, accusandoli di volere gettare fango su innocenti abitanti del paese. Inoltre Antonino Benanti, facente funzione di sindaco, applicando alla lettera le norme vigenti, revoca subito la licenza di “spaccio privilegiato” al fratello del defunto, che l’aveva chiuso nei giorni del lutto, concedendola a Giuseppe Monachelli. Il comportamento dei Benanti viene rilevato dal questore di Palermo che, in una nota riservata diretta al prefetto, gli fa notare come esso “vada ormai assumendo tale aspetto di provocante ed implacabile rappresaglia contro i parenti ed aderenti dell’estinto Verdura da compromettere seriamente il regolare svolgimento della giustizia riuscendo ad intimidire senza dubbio i testimoni”. Sempre per rappresagli Antonino Benanti, in virtù dei suoi poteri di ufficiale di governo,  avrebbe ritirato ai primi di luglio il permesso di porto d’armi al trentaseienne Pietro Graziano di Giuseppe, per “sospetti di furto di covoni di grano in pregiudizio di Orobello Illuminato”. Tale provvedimento, però, avrebbe origine nelle deposizioni fatte da Graziano nel processo Verdura, tutt’altro che favorevoli al partito Benanti.

5. Le indagini e la loro conclusione.
Durante le indagini viene ipotizzata la complicità con gli autori del delitto da parte di Vincenzo La Barbera, compagno di viaggio di Giorgio Verdura. In passato, infatti, c’era stato qualche screzio tra i due, ma alla fine l’ipotesi si rivela infondata, tanto più che Luigi Bannò, anch’egli presente ai fatti e intimo amico dell’ex sindaco, aveva dichiarato che era stato Giorgio Verdura stesso a invitare La Barbera a distaccarsi con lui dalla comitiva.
Gli inquirenti inoltre vengono a sapere che tre giorni prima dell’attentato si sarebbe tenuta una riunione in casa di Giuseppe Giuffrida con l’intervento di Giuseppe Ficarrotta, il medico condotto Antonino Calivà ed altri. Si disse inoltre che il giorno dopo l’assassinio il notaio Vincenzo Benanti e tale Stefano Sclafani, “si sarebbero recati nel fondo seminato a fave in cui lavorava il Ficarrotta ed avrebbero estratto da un letamaio, vicino al punto in cui fu esploso il colpo, un fucile che asportarono seco”. Inoltre la vedova di Giorgio Verdura avrebbe appreso dal marito ferito che “accanto a colui il quale gli esplose il colpo stava Monachelli Giovanni”.Monachelli era stato licenziato, su proposta dell’ex sindaco, da scrivano del municipio. Questa notizia indusse il giudice istruttore di Palermo ad emettere, in data 6 giugno 1879, mandato di cattura “eseguibile anche di notte” nei confronti di Giuseppe Monachelli fu Luciano di anni 29, “civile”, fratello di Giovanni, in quanto complice dell’assassinio, mandato eseguito due giorni dopo.
Altro elemento emerso dalle indagini, lo strano comportamento di un carabiniere della caserma di Ogliastro, il quale in un primo momento avrebbe espresso la motivata convinzione che il mandante dell’omicidio fosse Antonino Benanti, mentre di fronte al giudice istruttore, avrebbe notevolmente ridimensionato le accuse ai Benanti e ai loro complici. Secondo quanto rivelato dalla vedova Verdura agli inquirenti, il militare avrebbe fatto questo “dietro istigazione e minacce del proprio brigadiere, il quale va a licenziarsi alla metà del prossimo agosto e che probabilmente avrà ceduto a preghiera del Benanti, di cui si è sempre mostrato amico e partigiano del di lui partito”. Arriva al prefetto di Palermo nel mese di luglio una circostanziata lettera firmata Antonino Verdura, ma in realtà anonima, in cui si fa presente che “in questo paese di Ogliastro esiste un’associazione di malfattori la quale il sindaco funzionante alla testa di questa mafia e li suoi due fratelli Vincenzo Benanti, Antonino Benanti e Rosario Benanti, nonché Antonino Calivà, Giuseppe Monachelli, Giovanni Monachelli figlio del fu Luciano, la quale autore dell’assassino del nominato Verdura Giorgio”.  Entrando nei dettagli del delitto, l’anonimo indicava come mandanti i fratelli Benanti, Antonino Calivà e Giovanni Monachelli, mentre Giuseppe Ficarrotta e Giuseppe Monachelli ne sarebbero stati gli esecutori materiali.
La ragione dell’assassinio starebbe nel fatto che Verdura era stato “testimonio di una perquisizione passate nel trappeto di Antonino Benanti” durante la quale le forze dell’ordine, alla presenza del regio delegato Giovanni Cosentino, di un inserviente comunale e del brigadiere dei carabinieri, avrebbero rinvenuto 12.000 lire “in carte false”. Tali testimoni si sarebbero accordati fra di loro facendo perdere le tracce del ritrovamento. Il defunto Verdura sarebbe stato l’unico a non concordare con tale comportamento.
Nel mese di agosto si verifica un’altra delle previsioni annotate da Giorgio Verdura un anno prima di morire: vengono infatti tagliati 510 tralci di viti “a danno di Romano Ignazio”. A questo punto il questore scrive al prefetto che “è di vero che quanto accade oggi in Ogliastro non è se non quello che precisamente in data 26 luglio 1878 l’allora sindaco Verdura segnalava in via di precauzione alle autorità politiche e giudiziarie. Allora fu creduto un calunniatore e come tale venne anche trattato...”. Oltre a fare autocritica, il funzionario teme che si possa verificare anche l’altro assassinio pronosticato da Verdura, cioè l’omicidio dell’amico farmacista Lorenzo Bannò. E conclude “le famiglie Benanti-Monachelli, rappresentano in Ogliastro la maffia locale più audace e sanguinaria tanto più baldanzosa perché finora protetta da un vasto partito”. Il prefetto concorda pienamente con l’analisi del questore e afferma che le proposte per la carica di sindaco di Ogliastro, già messe in atto, non possono essere di alcun ostacolo o impedimento “alla rigorosa applicazione della legge contro le persone sospette e pregiudicate di quel comune”, che egli propone per l’ammonizione e per una stretta sorveglianza dei sospettati, fino ad arrivare a “proposte pel loro domicilio coatto, le quali non mancherò di accogliere ed appoggiare perché abbiano piena esecuzione”. Ma intanto le funzioni di sindaco erano svolte proprio da Antonino Benanti, uno dei tre indiziati come mandanti dell’assassinio Verdura. Non abbiamo purtroppo rinvenuto un’adeguata documentazione che ci consenta di seguire gli sviluppi e le conclusioni dell’indagine giudiziaria. Fatto sta che la carriera professionale e politica del notaio Vincenzo Benanti sarebbe proseguita non solo senza inciampi di sorta ma mietendo significativi successi. Sarà sindaco dal 1880 al 1888 e consigliere comunale per decenni, fino alle dimissioni presentate nel 1905.

Santo Lombino






QUANDO AVEVAMO LA FERROVIA  (di Santo Lombino)

  29 gennaio 2014


I carrettieri e i fondaci
Il trasporto delle merci provenienti dal sud della provincia verso Palermo e dall’agrigentino diretti al porto e ai mercati ortofrutticoli del capoluogo era fatta nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento con i carretti "a strascinu". "I carrettieri arrivavano a Bolognetta", narrano i testimoni, "sempre nel pomeriggio e posteggiavano ordinatamente sul lato destro della strada. Gli animali, invece, staccati dal carretto, venivano portati nel fondaco e accuditi, mentre i carrettieri riposavano sulla paglia accanto agli animali". Il viaggio riprendeva poi a notte fonda per concludersi di mattina in città dopo venticinque chilometri di strada non sempre agevole. Anche dal paese partivano alcuni "carrettieri" che trasportavano granaglie, prodotti ortofrutticoli, paglia per il mercato cittadino. A volte viaggiavano sul carretto anche persone che avevano bisogno di recarsi in città per qualche necessità o per imbarcarsi.
Nella seconda metà dell’Ottocento al riposo di uomini ed animali era adibito il fondaco e la bettola annessa situati sulla via Rotabile (oggi via Roma) ai numeri civici 31, 33 e 35 gestiti da Domenica Ciuni fu Pietro, mentre solo la licenza di bettoliere era stata concessa nel 1884 a Vincenzo Leto. Esattamente un anno dopo l‘attività di esercente di "bettola, locanda e fondaco" viene intrapresa anche da Giuseppe Attardi fu Francesco, secondo quanto deliberato dalla giunta comunale.
A fine secolo, per gli stessi scopi erano presenti in paese gli esercizi commerciali di Giuseppe Di Silvestri fu Stefano e di Giuseppe di Peri fu Serafino e la locanda-bettola di cui era titolare Antonina Bivona fu Giuseppe. La semplice licenza di bettoliere apparteneva invece in quel periodo a tre commercianti: Gennaro Pirrone figlio di Simone, Giuseppe Macagliotta, consigliere comunale, Salvatore La Barbiera figlio di Antonino. All’inizio del Novecento c’erano in paese tre fondaci, in cui si preparava anche da mangiare, ubicati sempre in via Roma, cioè sul corso principale: quello gestito ancora dalla famiglia Di Peri, uno gestito dalla famiglia Pirrone, un terzo dalla famiglia Sinagra. Dalla persistenza di alcuni cognomi è evidente che l’attività veniva tramandata per via familiare.


Si cercano altre strade
Gli amministratori della seconda parte dell’Ottocento si preoccuperanno delle condizioni in cui avveniva in territorio comunale il trasporto e l’accoglienza delle persone e delle merci per renderlo più efficiente ed utile all’economia locale. Nel maggio e poi nel luglio 1878 la giunta guidata dal sindaco Giorgio Verdura protesta presso le autorità provinciali perché il paese sarebbe danneggiato dalla Ferrovia Palermo-Lercara "con cui vengono iniziati i prodotti agricoli": si chiede perciò una revisione del progetto di variante. Lo stesso sindaco avanza alle autorità provinciali la proposta della realizzazione, presso il "bivio per Marineo", di una deviazione della strada nazionale che da Palermo va a Corleone, "che doveva passare dentro l’abitato di questo comune che si sarebbe così risvegliato dal letargo in cui giace", evitandone in tal modo l’isolamento: "La viabilità – si afferma nella delibera di giunta - è il primo fattore della prosperità e della civiltà di un paese. Senza strade le necessità economiche della vita sociale impongono alla produzione ed al consumo enormi sacrifici". Una delegazione di sei persone si recherà il 16 settembre al Genio Civile di Palermo per perorare tale richiesta.

Qualche mese dopo la giunta ritorna sulla questione dei trasporti: stavolta approva un voto che esprime tutta la preoccupazione degli abitanti del paese per il mancato passaggio dal centro abitato della linea ferroviaria Palermo - Porto Empedocle: il percorso di tale strada ferrata, a giudizio dei pubblici amministratori, emargina il paese, "ridotto ormai privo della vita commerciale e industriale".


Il consorzio per la linea ferrata
A tale stato di cose si comincerà a porre rimedio negli anni ’80. Il 30 settembre del 1880 si svolge una riunione dei sindaci della zona interna della provincia di Palermo, interessati alla costituzione di un consorzio di comuni per la realizzazione e la messa in attività di una linea ferroviaria che possa congiungere la città di Palermo a Corleone, ritenuta molto utile per la facilitazione dei trasporti di persone e merci. La spesa complessiva era preventivata in circa quattro milioni di lire, pari a lire 50.027 per ogni chilometro di percorso. Mentre il contributo statale sarebbe stato di circa due milioni di lire, ciascun municipio doveva contribuire con una quota alle spese occorrenti: quello di Ogliastro doveva versare 1.344 lire. Nel 1882 il Presidente del Consorzio per la ferrovia Palermo -Corleone", prof. Gaetano Sangiorgi, stipulò a Roma con i Ministri delle Finanze, del Tesoro e dei Lavori Pubblici la convenzione per la costruzione e l’esercizio di una ferrovia con capolinea Palermo e Corleone, passando per Misilmeri. Nello stesso anno erano stati firmati tra l’Amministrazione provinciale di Palermo ed i comuni interessati la convenzione e il capitolato d’appalto che porteranno alla realizzazione dell’opera pubblica. Si tratterà di una linea ferrata a scartamento ridotto che dalla stazione di S.Erasmo, nel capoluogo, arriverà a Corleone e poi a San Carlo, ponendo le premesse per una successiva prosecuzione fino a Sciacca, sulla costa sud-occidentale della Sicilia. L’intera rete, commissionata dal consorzio, che viene progettata dagli ingegneri Albanese e Filiberto, verrà costruita dalla società inglese "Narrow gadge railway Company Sicily" guidata da Roberto Trewhella, con sede a Londra. Tale società avvia i lavori due anni dopo la firma delle convenzioni, servendosi di ditte appaltatrici come l’Impresa Tonello. A rappresentare il comune di Ogliastro-Bolognetta nel Consorzio, viene chiamato dal consiglio comunale nei primi anni ’80 l’avvocato Francesco Nicolosi originario di Lercara Friddi, ma residente a Palermo, dal 1886 l’on.le Antonino Di Pisa, nel triennio 1901-1903 l’avvocato cav. Arto. Negli anni che vanno dal 1904 al 1909 rappresenterà toccherà al cavaliere Salvatore Ferrara di Epifanio, residente a Lercara, cognato del proprietario Carmelo Monachelli.
L’opera viene ultimata nel 1886: si racconta che il conte San Marco ottenne una deviazione del tragitto feroviario, mentre a Mulinazzo il barone Di Salvo ottiene una fermata intermedia tra i comuni limitrofi di Bolognetta e Villafrati, fermata "vicinissima al suo ex feudo Tumminia". I fabbricati della stazione di Bolognetta, che era la quarta dopo Palermo-S. Erasmo, Villabate e Misilmeri, saranno composti dall’Ufficio movimento, da un magazzino, dai servizi igienici e da una cisterna per il rifornimento idrico: vi operano un piccolo gruppo di impiegati e operai. A tale stazione i passeggeri arrivano percorrendo a piedi qualche chilometro dalle ultime case del paese, mentre gli abitanti di Marineo coprono il percorso per andare o venire dal loro comune, utilizzando una diligenza, muli o carri.


La strada per la stazione
Negli anni immediatamente a ridosso della costruzione della linea, in realtà, la civica amministrazione di Bolognetta non ha intenzione di impegnarsi finanziariamente alla costruzione di una vera e propria strada che colleghi la stazione alle strade esistenti, ritenendo che tale manufatto non fosse né necessario né obbligatorio: dovrà intervenire la Prefettura per convincere gli amministratori che l’opera stradale andava costruita, non a sole spese del comune di Marineo, ma con la collaborazione di entrambi i comuni. Viene così deliberata la formazione di un "Consorzio tra i comuni interessati per la strada obbligatoria", per la quale viaggeranno i passeggeri ed trasporti postali dalla stazione di Bolognetta alla "Comune" di Marineo, "essendo la massima parte (dei passeggeri) abitanti di Marineo". Nell’agosto 1885 verrà affidato all’ing. G. Angeletti del Genio civile di Palermo l’incarico della progettazione di tale via di collegamento che nella toponomastica comunale verrà indicata come "stradetta n. 1". Per il progetto vengono stanziate 300 lire e per i lavori la somma di lire 1000, in seguito lievitata a 1.500. Vengono pure stabilite le giornate di lavoro che i bolognettesi dovranno prestare per contribuire all’opera, con tariffe precise sia per le giornate degli operai (1.25 lire) sia per la messa a disposizione di muli (2.30 lire) o asini (lire 1.40), adibiti al trasporto dei materiali occorrenti. Si stabilisce inoltre con voto unanime del Consiglio comunale di Bolognetta che i lavori per la "strada obbligatoria di collegamento" vengano fatti da metà agosto al 15 ottobre, dal momento da giugno al 15 agosto gli abitanti del paese sono impegnati nei "lavori di raccolto di frumento e sommacco". Sono 392 i lavoratori che saranno chiamati a prestare la loro opera, ma di essi due, Francesco Greco e Antonino Rigoglioso vengono "cancellati per emigrazione", non sappiamo per quale destinazione, se interna o estera. La giunta Di Salvo-Graziano-Machì nomina sorvegliante della strada di collegamento Michelangelo Bongiorno, figlio di Saverio. Ma sedici anni più tardi il Coniglio comunale riprenderà la questione della manutenzione della stradetta, ritenendo e affermando che essa "serve ad esclusivo uso del Comune di Marineo" Ancora una volta il Prefetto impone che anche Bolognetta contribuisca a tali spese per un terzo del loro ammontare complessivo, ribadendo a chiare lettere che "l’obbligatorietà risulta dal fatto che la stradella trovasi compresa nell’elenco delle strade comunali di Bolognetta".

L’esproprio
Un altro contenzioso nasce con Rosario Benanti, fratello del notar Benanti, proprietario del terreno su cui dovrà sorgere la stradetta di cui sopra, e per il quale il Prefetto di Palermo ha stabilito con decreto l’esproprio per pubblica utilità. Benanti prima chiede che la strada, di circa 14 are, abbia inizio dove propone lui e non dove è prevista dal progetto Angeletti. Poi non accetta l’indennizzo di 350 lire per l’esproprio, che lui ritiene inferiore al reale valore del terreno, e si rivolge al Tribunale civile di Palermo. Quest’ultimo incarica l’ingegner Simone Biuso di effettuare una perizia in loco per stabilire un equo indennizzo. A giudizio del tecnico il valore del terreno dovrebbe ammontare a 845 lire, quasi il triplo dell’indennizzo proposto: tale cifra esorbitante viene giustificata con il fatto che la strada da costruire dividerebbe in due il podere di Benanti, con conseguenti difficoltà per le ordinarie operazioni di coltivazione. Il terreno, poi, ha un alto valore in quanto classificabile di "prima classe", suscettibile di essere coltivato a "maglioli" come i terreni limitrofi. Non la pensa così l’Amministrazione comunale, che per bocca dell’assessore Saverio Bongiorno fa presente che proprio in seguito alla costruzione della via e alla vicinanza della stazione ferroviaria Benanti vedrà accrescere il valore commerciale del terreno rimanente che, anziché essere danneggiato, "acquista un vantaggio speciale e immediato".

Dati alla mano, l’assessore Bongiorno dimostra in Consiglio comunale che le controproposte di Benanti sono da attribuire a "un puro e semplice astio contro quest’Amministrazione per non aver voluto tracciare la stradetta nel punto da lui disegnato." Di fronte alla minacciosa decisione dell’assemblea municipale di aprire un contenzioso in sede penale, Rosario Benanti accetta infine una transazione, accontentandosi di un pagamento di 637 lire, inclusa la parcella del "compenso esagerato" chiesto dall’ing. Biuso per la sua perizia tecnico-finanziaria.


Si parte!
Il 16 giugno 1886 viene inaugurata la prima tratta della linea, la Palermo-Villafrati, lunga 34 chilometri: un treno pieno di autorità, di dirigenti della società costruttrice e di giornalisti farà sosta quel giorno anche a Bolognetta, tra sventolii di bandiere e suono di fanfare. La meraviglia è generale, qualcuno non crede ai propri occhi, qualcuno fugge impaurito di fronte al "satanico" locomotore mai visto prima. "I luoghi più significativi del percorso erano rappresentati dal ponte sul fiume Eleuterio nel territorio di Misilmeri con tredici arcate, detto r’i Murtiddi (dei Mirtilli) che i passeggeri guardavano con meraviglia; altrettanto stupore suscitavano i circa 200 metri di galleria nei pressi di Bolognetta…" La linea non avrà mai un alto numero di viaggiatori, visto che i treni, che mettono insieme carri merci e carrozze passeggeri, viaggiano alla media di trenta chilometri orari e accumulano enormi ritardi. E’ tale la lentezza del traffico, che, quando il convoglio ferroviario percorre in salita la tratta da Misilmeri a Bolognetta i viaggiatori hanno il tempo di scendere, raccogliere frutta dagli agrumeti o fiori dai campi e risalire comodamente sulle carrozze in movimento. Il poeta Lampiasi dedicò ai luoghi e all’opera un poemetto, che,tra l’altro, recitava:

Ahi chi timpa rucciulusa,


o’ Ricuperu d’Agghiastru!


Striscia a stentu, ‘nt’a acchianata,


zuppichìa aggrancicannu,


quasi l’ecu ripitissi:


Mamma mia, schetta sugnu,


setti figghi e prena sugnu,

‘mpassuluta restu ccà,
‘unni pozzu cchiù.
Unni nni...pozzu cchiù!".

Passu a passu, ranti ranti
Sfatta arriva a Bolognetta,
e darrè risacca avanti
‘un cruficchiu, ‘mpenna e ‘mpetta,
comu lebbru timurusu,
ca s’ammucccia nni li fratti,
sirpiannu, nn’ o catusu,
‘ntra lu fumu si dibatti.


Il suburbano
Il treno per andare a Palermo transita dalla stazione di Bolognetta alle prime luci del mattino: sarà chiamato dalla popolazione della zona "subarbanu" o "suparbanu", suburbano. Pare che inizialmente non tutti i treni avessero fermata a Bolognetta, o che vi fossero convogli che partivano da Misilmeri per la città capoluogo. Nel 1907, infatti il consiglio comunale chiede che il sub-urbano parta da Bolognetta, "giacché la maggioranza dei contadini e commercianti che per ragioni d’interesse debbono trovarsi a Palermo nelle ore mattutine avrebbero l’agio di avvalersi delle ferrovie anziché dei carri che arrecano gravi disagi a questi abitanti". Tale auspicio fa seguito ad una precisa richiesta avanzata più di un mese prima dal prof. Francesco Monachelli che aveva scritto una lettera alle superiori autorità e all’azienda "pel prolungamento del treno sub-urbano sino alla stazione di Bolognetta".



Ex viadotto tra Bolognetta e Misilmeri detto anche 13 ponti.
 Foto tratta dal "Misilmeri Blog"
La linea ferroviaria s. Erasmo - s. Carlo sarà in esercizio fino al primo luglio 1954, quando la linea cesserà di funzionare, sostituita dalle autolinee dell’Azienda Siciliana Trasporti e della ditta "Giorgio Florìa & figli" di Vicari, già attiva, quest’ultima, da alcuni decenni. Il tracciato ferroviario sarà utilizzato nel 1970 e negli anni seguenti per la costruzione della strada "a scorrimento veloce" Palermo-Agrigento, poi Statale 121.
Santo Lombino

 


Continuiamo con la pubblicazione di documenti su Bolognetta. Questa volta a scriverci è stata la D.ssa Patrizia Vilardi, Assessore alle Politiche Sociali del Comune di Bolognetta, la quale ci ha inviato, per la pubblicazione sul blog, un suo scritto abbastanza corposo che pubblichiamo in parte di seguito, rimandando il lettore, che ne fosse interessato ad effettuare il download completo da questo link.
Si ringrazia l'autrice per il contributo dato a questa iniziativa del blog. 

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di Patrizia Vilardi

29 gennaio 2014

Bolognetta (Agghiastru in siciliano) è un comune di 4.174 abitanti della provincia di Palermo.


Storia                                                                                         
Le prime notizie storiche che si riferiscono al territorio di Bolognetta, le troviamo nella storia dell'ex-feudo di Marineo dei Beccadelli.
Il Calderone e l'Amari indicano spesso doviziosamente i territori di Bolognetta fra quelli che videro le storiche gesta della presenza dei Musulmani in Sicilia.
Il Calderone narra di eroiche battaglie svoltesi ivi fra i musulmani e le falangi greco-sicule attorno all'850. Secondo l'autore i nomi di alcune contrade, allora campi di battaglia, conservano ancor oggi il ricordo di quei fatti, così si fa risalire l'origine del nome Casaca al termine latino Casatum, che significa caduto, e da ciò la selva dei caduti o della disfatta; Casachella risulta invece composta da due termini greci che si traducono il primo con < che si lascia vincere>, il secondo con < testuggine >,dalla forma presa dalle schiere greche in battaglia, donde Casachella = luogo dove soccombettero le schiere.
Nel basso medioevo, il bosco di Casaca viene citato in diversi documenti con il nome di Chasum Chasace. 
Nel 1306, dopo la cacciata degli angiomi avvenuta nel 1282 con la guerra del Vespro, un documento riporta che il re aragonese Federico III “concesse agli abitanti di Palermo il diritto di raccogliere legna (lignaficum) e carbone nei boschi di Godrano e Casaca". 
In questa concessione il bosco di Casaca è considerato parte integrante del feudo di Cefalà, del quale seguì per alcuni secoli le vicende.
"Quando l'abitato sorse con il nome di Ogliastro nella Sicilia regnava ancora la pax hispanica, sebbene trent'anni di guerra avessero non poco offuscato lo splendore dell'Impero spagnolo, trascinandolo sull'orlo di un collasso economico. Per questo motivo al viceré e ai nobili più fedeli fu impartito l'ordine di vendere i loro possedimenti, per inviare il ricavato in Spagna: Ogliastro fu proprio l'oggetto d'una di queste cessioni" (Santi Correnti, Sicilia da conoscere e da amare, 1999).
Il primo documento scritto che riguarda l'ex-feudo di Casaca, dove oggi sorge Bolognetta, risale al 25 febbraio 1570, anno in cui fu concesso a Don Luigi di Bologna, Marchese di Marineo, la licenza di popolare quelle terre. 
Tracce storiche che si riferiscono all'odierno territorio di Bolognetta le troviamo nella storia dell'ex feudo (o Stato) di Marineo dei Beccadelli.
Il 12 settembre 1600 Vincenzo Bologna Beccadelli, marchese di Marineo, vende un fondaco composto dalle contrade Casaca, Casachella, Coda di Volpe, Bosco, Piraynazzo, Roccabianca, sotto unico nome di Casaca, a Marco Mancino, ricco mercante genovese, con un contratto stipulato dal notaio Arcangelo Castania di Palermo. Marco Mancino in tale atto si riserbò il diritto di <congregar gente>, ed il marchese Bologna pose la condizione che, venendosi a formare un paese, questi avrebbe dovuto chiamarsi <nomare>: Bolognetta.
Tale condizione non fu rispettata. Infatti il paese che a poco a poco si venne a formare prese il nome di S.Maria dell'Ogliastro, per un'immagine della Madonna posta dinanzi un olivo selvatico,vicino al fondaco, e lo mantenne fino al 1882.
La condizione posta dal Bologna venne quindi dimenticata e soltanto l'8 ottobre 1882 il paese ha assunto il nome  di Bolognetta. Il Garufi inserisce nell'elenco dei comuni feudali fondati nei secoli XV-XVI, ma occorre precisare che la data di concessione della licentia non corrisponde con quella citata dal De Spucches.
Questo feudo venne aggregato da Marco Mancino a quello di Tumminia, precedentemente acquistato dall'illustre Francesco del Bosco, conte di Vicari, agli atti del notaio Antonino Lazzara di Palermo, il 17 settembre 1593.
Con il testamento di Marco Mancino, redatto dal notaio Paolo Mulè di Palermo e aperto il 10 aprile 1627 viene nominato come erede universale Trajano Parisi, con obbligo, per lui e per i suoi eredi, di assumere nome e cognome del testatore. 
Il casato dei Mancino si esaurisce con Marco Mancino VIII, che il 12 luglio 1812 si investe dei feudi di Tumminia e di Casaca.
Certamente il fondaco costituiva un importante luogo di traffico; perciò riesce comprensibile il suo ruolo come uno degli elementi propulsori della nuova fondazione.
Nella <Pianta del cammino dei Corrieri ordinari per S.M> del 1714, il fondaco di Ogliastro viene menzionato per la prima volta tra le stazioni di posta comprese nell'itinerario da Palermo a Noto, e ciò dimostra la crescita della sua importanza.
Del fondaco non esiste più alcuna traccia, si può soltanto individuare il luogo ove sorgeva, lungo l’attuale via Roma (ex trazzera regia) nella piazza Madrice. Si può verosimilmente ipotizzare che l'edificio non fosse dissimile nella distribuzione dalla tipologia tradizionale molto in uso nella Sicilia del XVII secolo, essendo un elemento indispensabile lungo tutti gli itinerari di collegamento fra le principali città dell'Isola.
Nel 1603 risale la costruzione della Chiesa Madre, realizzata vicino al fondaco su uno slargo ai margini della trazzera; nel 1605 fu eretta a parrocchia per volere di Marco Mancino, che richiese espressamente all'arcivescovado di Palermo un arciprete e stabilì di quale entità dovessero essere le offerte per la chiesa da parte della popolazione.
Per tutto il periodo feudale la dinastia dei Mancino fa della cittadina il proprio giardino e la propria residenza. A metà dell'Ottocento giungono gli anni della lotta contro i Borboni. 
Marco Mancino VIII sperpera le sue ricchezze in difesa della dinastia borbonica, mentre la popolazione si schiera per l'indipendenza dando vita a più di un tumulto. Si forma anche un comitato rivoluzionario in appoggio a Garibaldi, e nel 1866, allorché i paesi di mezza Sicilia insorsero, Ogliastro è tra questi. Comincia qui la storia moderna del piccolo centro, che conosce stenti e sofferenze, segnata dal calvario dell'emigrazione. Agli inizi del ‘900 la mèta è l'America: ancora oggi nel New Jersey è presente una numerosa comunità di bolognettesi.
Dopo la seconda guerra mondiale sedi privilegiate di emigrazione sono l'Italia del Nord, la Svizzera, la Francia e la Germania. 



Geografia, flora e fauna
II comune di Bolognetta ha una superficie di 2.758 ettari, per una densità abitativa di 126 abitanti per chilometro quadrato. Sorge in una zona collinare interna, posta a 300 metri sopra il livello del mare. 
Le sue coordinate geografiche, riferite all'ellissoide internazionale riferito a Roma, sono: latitudine 37”57”00" e longitudine 1” 00”04".
Il territorio confina a Sud con il territorio di Villafrati, a Sud-Ovest con quello di Marineo; a Nord e a Ovest con quello di Misilmeri, a Nord-Est con quello di Casteldaccia, a Est con  quelli di Ventimiglia e Baucina. ed è composto dalle contrade Bosco,Casaca, Casachella, Cipolluzzi, Coda di Volpe, Dagariato, Filaccina, Grassorelli, Lordica, Piraynazzo, Risieli, Roccabianca, Testa Montata, Torretta, Tumminia.
I suoi confini, prevalentemente artificiali, sono delimitati a Est e Nord-Est dal torrente Sercia, a Nord dalla Regia trazzera per Pizzo di Cicero (che conduce a Bagheria), mentre ad Ovest dalla Regia trazzera per la Ficuzza e dal vallone Giampaolo.
Il territorio è attraversato dal fiume Milicia, che nasce nel Bosco di Ficuzza e sfocia nel Mar Tirreno, nei pressi di Altavilla Milicia . La flora è composta prevalentemente da alberi di ulivo, agrumi e frumento. Dalle olive prodotte viene estratto un buon olio con medio grado di acidità e quindi dalle discrete caratteristiche organolettiche. Presenti anche diversi vigneti che permettono la produzione di un amabile vino rosato. Tra gli ortaggi prevalgono le coltivazioni di pomodori, finocchi, carciofi e cipolle, che vanno ben oltre il fabbisogno della zona, così da trovare nei mercati vicini, e soprattutto in quello di Villabate, il proprio sbocco commerciale. Gli agrumi sono coltivati sulle rive del torrente Milicia.

In contrada Bosco, nei pressi di Pizzo Mangiatorello, si ha la presenza di " U Pignu ", un albero secolare punto di riferimento per gli abitanti bolognettesi. La fauna è rappresentata dal coniglio selvatico, dalla volpe, dalla gazza ladra e dalla tortora.




Come da invito rivolto in fase di prima pubblicazione di questo blog, riceviamo e pubblichiamo il primo "saggio" sulla emigrazione, gentilmente concesso dal Prof. Santo Lombino.
A lui va diretto il nostro più vivo ringraziamento, con la speranza che altri possano collaborare alla crescita del blog.
(per chi volesse scaricare il file del "saggio")  


Presentazione
La rubrica "Ieri oggi domani" vuol essere un invito al dialogo sulla storia, alla scoperta del passato di Bolognetta e della Sicilia, un invito a non interrompere il filo che lega le generazioni, perché sono convinto che la conoscenza del passato può aprire gli occhi sul presente e sul futuro della nostra comunità.

Santo Lombino


Saltare cent’anni in un giorno solo.

La grande migrazione da Bolognetta.


Nel 1875, l’anno di cui si hanno le prime statistiche nazionali ufficiali sul fenomeno migratorio, è partito il primo ogliastrese-bolognettese per andare a lavorare negli Stati uniti. Si chiamava Antonino Pepe, era nato nel 1846, era figlio di  Rosario Pepe e Giuseppa Licastri ed aveva con sé due fratelli più piccoli, Carmelo e Salvatore. Antonino formò una famiglia con Antonina Licastri, che mise al mondo sei figli: Giuseppe, Sara, Charlie (all’anagrafe, Salvatore, nato nell’aprile del 1897), Carmelo (nato nel luglio 1900), Antonino (nato nel 1906) e Rosario. Quest’ultimo, meglio conosciuto come Sariddu Meccia, nacque a New York il 31 ottobre 1901 e fu battezzato nella chiesa della Madonna di Loreto. Lo ritroviamo in Italia nel 1909 e nel 1917 con la famiglia, per poi tornare, con una numerosa prole, di nuovo e definitivamente negli Usa nel 1948. Aveva sposato nel 1924 Antonina Scimeca, nata a Elizabeth Street nel 1905:  era sorella di Giuseppe, classe 1902, e figlia di Santo Scimeca e Santa Leto, giunti in Usa nel 1894.
Intorno al 1890 arrivò negli States Giacomo Di Piazza che sposò Apollonia Arrigo ed ebbe sei figli, tra cui Paola (nata a New York nel 1891), Giuseppe, classe 1898, e Salvatore Sal  Di Piazza. Quest’ultimo, nato il 12 ottobre 1901 a Elizabeth Street, divenuto sarto specializzato in abiti da sposa, sarebbe poi tornato a Bolognetta. Sposatosi nel 1920, sei mesi dopo il matrimonio tornò negli Usa, da dove ripartì nel 1929, all’epoca della depressione. Nel luglio del ’43, dopo lo sbarco di Gela, Turiddu l’americanu avrebbe fatto da interprete presso le truppe della Settima armata statunitense e della Ottava armata britannica passate dal paese e presso l’amministrazione degli affari civili guidata dal tenente colonnello Charles Poletti (1903-2002) prima a Baucina  poi a Palermo e quindi al consolato Usa del capoluogo siciliano. Anche per questo, nel 1946 Salvatore ebbe facilmente il visto per tornare con la moglie Maria ed i tre figli in nord America, dove avrebbe continuato a confezionare abiti da cerimonia e sarebbe vissuto fino a superare l’età di cento anni. Nel 1894 da Bolognetta erano già a New York Domenico e Lorenzo Sclafani, Antonino Rigoglioso, la famiglia Vaccarino, Santo Zuccaro e Lucia Arnone, genitori  di Michele Zuccaro, nato il 25 gennaio 1904 e poi trasferitosi a Garfield. Salvatore Mastropaolo (1862-1936), che era nato a S. Maria di Ogliastro, giunse nella grande città americana con la nave “Elisia”, proveniente da Napoli, il 6 luglio 1897, all’età di 35 anni, sposato. I registri di Ellis Island ci dicono che sullo stesso bastimento viaggiava Salvatore Lombino, 36enne e Giuseppa Lombino di appena 4 mesi. Salvatore Mastropaolo con la moglie Anna Iracane ed  i suoi 13 figli (tra cui Carmelo, classe 1895, Grazia, nata nel 1896, Giuseppe, del 1905, tutti nati e battezzati a New York), come pure Giuseppe Lo Faso e Biagio Arrigo si sarebbero poi trasferiti dalla “Grande mela” a Garfield, nel New Jersey, città industriale piena di aziende soprattutto del settore tessile, dove si trapiantò una costola della Little Italy degli oriundi da Bolognetta e Marineo. Oltre che New York ed il New Jersey qualcuno dei nostri emigrati raggiunge in quel periodo stati più lontani dalla costa atlantica, come l’Ohio, il Texas, l’Illinois, la Pennsylvania. In quest’ultimo, nel 1902, si verifica una grave tragedia: il bolognettese Santo Scimeca, che aveva trovato lavoro come manovale nelle ferrovie, fu vittima di un mortale infortunio sul lavoro: mentre spingeva un carro merci, ne fu investito in pieno e rimase schiacciato sotto il veicolo.
Il 1 maggio 1898 sbarcò con la nave Hesperia, salpata da Napoli, il 17enne Giovanni Bivona, l’anno dopo arrivarono Antonino Oliveri, che trovò lavoro in una fabbrica, ed i fratelli Giuseppe e Anna Bordonaro, rispettivamente di 16 e 14 anni, tutti con l’atto di richiamo fatto da Peppino Oliveri. Giuseppe Bordonaro, che all’anagrafe era annotato come Pietro II° Domenico, era rimasto orfano a 11 anni e aveva vissuto a servizio nelle stalle dei proprietari di bestiame per poi fare il bracciante: in America trovò lavoro presso una ditta tedesca che stava costruendo le ferrovie a Philippsburg in Pennsylvania, al confine con il New Jersey. Ogni due settimane tornava a New York a trovare la sorella, ma era sempre più preoccupato, perché qualcuno gli riferiva che Anna, grazie alla sua bellezza, aveva molti corteggiatori. Si racconta che dopo tre anni di lavoro, la ditta licenziò gli operai mantenendo gli impiegati e regalando loro un orologio con catena d’oro col suo marchio di fabbrica. Bordonaro tornò allora a Bolognetta, sposò nel 1905 la cugina Rosa Di Peri, classe 1889, una delle quattro figlie femmine di Ciro Di Peri, soprastante dei proprietari Romano, direttore dell’ufficio delle “regie poste” di Bolognetta e Pietro Bruno, medico condotto e ufficiale sanitario, presidente della Congregazione di carità, molto stimato in paese.
Nel 1913, Giuseppe partì di nuovo per il nord America, portando con sé, stavolta, il cognato Domenico Persico, nato a Gangi nel 1889, che era già stato negli Usa cinque anni prima. Appena fu possibile, scrissero alle mogli che, avendo acquisito una buona sistemazione, era tempo che anche loro andassero a vivere nel nuovo mondo. Queste risposero però che “mai avevano stati separati della sua vecchia famiglia e non si volevano allontanare, avevano paura attraversare il mare”. Quindi, di raggiungere i mariti non se ne parlava. Rosa Di Peri fu decisa. Scrisse al marito: “Verrò in America quando si farà un ponte di foglie di rose”. Da parte loro, quindi, le due donne pregavano i coniugi “di ritornare, con quel poco di moneta che avevano accumulata” per acquistare una casetta e qualche appezzamento di terreno (Bordonaro 1990-93). La trattativa epistolare tra le due coppie durò tre anni, ed alla fine ai mariti non restò altra scelta che  imbarcarsi alla volta dell’Italia. Arrivarono nell’aprile 1915, apprendendo, al momento dello sbarco a Napoli, che era scoppiato il primo conflitto mondiale e l’Italia si apprestava a parteciparvi. La città era tappezzata di manifesti con il richiamo alle armi. Persico, che già aveva combattuto in Libia nel 1911 e conosceva per esperienza diretta i tristi effetti della guerra, avrebbe voluto con la stessa nave dell’andata riprendere la strada per gli Stati uniti. Il capitano non ne volle sapere, perché era dovere dei giovani patrioti andare a combattere. Così i due cognati tornarono in paese per pochi giorni: Giuseppe poté rivedere il figlio Tommaso, di sei anni, che non lo conosceva ancora ed andare alla fiera di Corleone per comprare un mulo. Qualche settimana dopo, i due furono arruolati nell’esercito, come tanti altri giovani in età di leva che erano tornati per obbedire alla cartolina precetto, tra cui i concittadini Giusto Salerno, Rosario Azzara, Salvatore Rinaldi, Carmelo Di Piazza. (Benedetto Fiumefreddo, invece, che pure era rimpatriato con l’intenzione di arruolarsi, fu arrestato per renitenza alla leva essendo arrivato qualche mese dopo la scadenza prescritta).
Giuseppe Bordonaro trascorse gli anni di guerra a fare la guardia alla stazione ferroviaria di Catania, nella compagnia del tenente Giovanni Orobello, anch’egli di Bolognetta, figlio di proprietari terrieri e futuro podestà, che lo mandava spesso a casa in licenza. Alla fine della guerra andò a lavorare dal marchese di Bongiordano, a Roccabianca, dov’era amministratore lo zio, Ciro Di Peri.  Il fante Domenico Persico fu invece portato al fronte sulla linea dell’Isonzo e colpito da una bomba nel settembre 1915 alla conca di Plezzo, nei pressi di Gorizia, mentre dalla trincea usciva a prendere l’acqua. Non rivide più la moglie, né la casa, né il paese.
Nel 1907 nel porto di Palermo, dove c’erano già venticinque locande “autorizzate” dal governo, con una dotazione complessiva di 770 posti-letto, si aprì una “casa dell’emigrante” dove poteva trovare assistenza chi attendeva l’imbarco per le rotte atlantiche: già dal 1901, anno in cui il parlamento italiano approvò la prima legge organica sull’emigrazione, si era parlato dell’istituzione di ricoveri statali che salvassero i partenti dai disagi e dalle truffe degli approfittatori. Mentre in altri porti i ricoveri soffrivano di scarsa cura dell’igiene, a Palermo i problemi erano altri: i responsabili della “casa” costringevano i nuclei familiari e i singoli ad un regime da “caserma” e chi vi entrava non poteva più uscirne prima di salpare. Proprio nel 1907 si raggiunse il picco degli arrivi negli “States”: passavano ogni giorno da Ellis Island cinquemila persone. L’anno dopo, il 22 dicembre 1908, con la nave “Hamburg” partita da Napoli, giunse negli States il bolognettese Ferdinando Castelbuono, 23enne, che aveva sposato Rosolina Di Fresco. Metteranno al mondo sette figli: Paolina, Giuseppe, Antonino, Castrenze,  Simone, Salvatore e Carmelina.
A New York, i bambini che nascono nella comunità italiana e bolognettese in particolare  vengono battezzati per gran parte nella chiesa della Madonna di Loreto che si trovava al civico 303 di Elizabeth Street. Qui operavano, negli anni a cavallo del secolo, numerosi sacerdoti di origine italiana, come i padri Longo, Romano, Caramello, Palermo: firmati da loro partono per la parrocchia del paese di origine i certificati di battesimo con l’indicazione, oltre che della data di nascita e di battesimo e delle generalità dei genitori,  dei nomi del padrino e della madrina, in genere due coniugi o due fratelli. Altri battesimi si celebrano nella chiesa di S. Patrick, la vecchia cattedrale della città, oppure a Brooklyn nella Chiesa della Madonna del S. Rosario di Pompei, posta al n. 225 di Siegel Street. Più avanti nel tempo, a Garfield, la parrocchia dove si battezzano i figli dei bolognettesi sarà la chiesa di Maria SS. di Montevergini. I cognomi più ricorrenti dei bambini battezzati in quelle chiese tra il 1893 e il 1914 sono La Duca, Sclafani, Lo Faso, Benanti, Lo Cascio, Vilardi, Oliveri e sono indicativi dei gruppi familiari che hanno in più larga misura contribuito all’emigrazione transatlantica da Bolognetta e che si sono saldamente stabiliti in quei lontani territori, pur con frequenti ritorni e  ripartenze.
Chi tornava in paese dopo l’esperienza nordamericana portava con sé qualche attrezzo di lavoro o oggetto d’uso domestico: c’era chi aveva messo nel baule uno scalpello e chi una pesante mazza metallica per i lavori edili, chi l’orologio a pendolo con base di legno intarsiato. Giuseppe Bordonaro, per esempio, aveva portato dagli Stati uniti il lume a petrolio, Pietro Arrigo una sega di grandi dimensioni, Rosario Azzara dei cunei in metallo, una mazza ed  un’accetta di quindici chili per fare legna con gli ulivi ormai vecchi, Rosario Bordonaro l’accetta a due tagli, Salvatore Turi Leto una sega per gli alberi e la macchinetta tritacarne con cui venivano macinati anche i fichi secchi utilizzati come condimento per i vucciddata, i tradizionali dolci di Natale.
Ma non si importavano solo strumenti per il lavoro da oltreoceano. Giusto Salerno, che negli Usa era giunto sedicenne, il 12 giugno 1905 proveniente da Napoli, portò al ritorno dall’emigrazione una grande competenza: aveva imparato nel tempo libero dal lavoro in fabbrica o nelle ferrovie le storie di Carlo Magno e dei paladini di Francia ascoltate da un “puparo” siciliano a New York. Ed aveva imparato così bene da mettersi a lavorare anche lui nell’opera dei pupi dei quartieri italiani della metropoli nordamericana. Diventò così bravo a raccontare i “cunti” che, rimesso piede in Sicilia, nelle sere d’inverno, accanto al fuoco del braciere, intratteneva nipoti e conoscenti. Ad un certo punto della serata, gli ascoltatori non distinguevano più, nelle sue infervorate narrazioni, le avventurose gesta di Orlando, Rinaldo e degli altri paladini da quelle di Giusto e dei suoi amici in America...
(fine prima parte)
Santo Lombino

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Parte seconda

Società di mutuo soccorso, congregazione religiosa, social club
Il clobbo dei bolognettesi negli Usa


  1. La fondazione della Società
 La zona detta Bowery, nella  lower–east-end dell’isola di Manhattan, è il punto di incontro di molti emigrati meridionali presenti a New York. I sociologi hanno disegnato vere e proprie mappe della presenza di immigrati dalle varie regioni italiane. Alcuni “blocchi” di palazzi sono abitati dai siciliani, in particolare da quelli provenienti dalla provincia di Palermo. All’interno di questi, si era sviluppata la comunità  originaria di Bolognetta, assai vicina a quella proveniente da Cinisi, Ciminna, Polizzi Generosa e Marineo. Quest’ultimo comune, allora di circa 10.000 abitanti, si trova a cinque chilometri da Bolognetta: le due popolazioni hanno stretto nella madrepatria molti legami di parentela, confermati nella terra di arrivo, a dispetto degli scontri campanilistici che per secoli si eranoverificati in Sicilia.
In quella zona di New York  piena di poveri e angusti tenements gli emigrati bolognettesi, seguendo l’esempio di altre comunità meridionali, danno vita alla Society of Mutual Benevolence of Bolognetta, “Società di Mutuo Soccorso di Bolognetta”, il cui atto costitutivo viene redatto dal notaio Giovanni Maccarrone di New York con la classificazione di domestic not-for-profit association, associazione nazionale senza fini di lucro. La data è quella del primo novembre 1902, proprio l’anno in cui la cifra delle partenze da Bolognetta è la più alta della prima metà del XX secolo: 222 anime. Le prime riunioni avvengono nella chiesa della Madonna di Loreto in Elizabeth Street: successivamente viene preso in affitto un “little store” al numero 280 di Mott Street, parallela alla suddetta Elizabeth Street ed ortogonale alla altrettanto nota Canal Street.
Il primo paragrafo dell’atto di fondazione afferma che finalità precipua del Club è: Mutual voluntary among its members who may need and deserver assistance: il soccorso volontario e reciproco tra i soci che possono trovarsi in stato di bisogno e siano meritevoli di assistenza”. Come tale aiuto e tale assistenza si realizzasse poi di fatto, difficile oggi sapere, al di là delle frasi fatte del formulario notarile. L’aiuto ai nuovi arrivati era un fatto assodato a livello di gesti personali da parte di amici e conoscenti: quando si aveva notizia dell’arrivo di un compaesano, infatti, si andava a fargli visita  portando un piccolo contributo in biglietti verdi, la busta, che serviva ad affrontare le prime spese nella nuova terra a chi tante spese aveva già affrontato per il viaggio sul vapore. Per i soci, è probabile che scattasse un sussidio settimanale in caso di malattia o infortunio oppure uno straordinario ai congiunti in caso di morte. Era dovere dei confratelli avvisare i dirigenti della Società nel caso di degenza ospedaliera per grave malattia di un socio: essi avrebbero provveduto ad effettuare una visita al malato a nome di tutti gli affiliati. Lo statuto rielaborato nel 1970 porta traccia di quella che forse era, sul piano individuale, uno dei compiti più importanti della Società: “Nel caso di morte di un fratello la Società è tenuta a versare alla famiglia dell’estinto una somma di cento dollari più una corona di fiore da 25 dollari, detti benefici spettano a tutti i fratelli da 5 ai 65 anni con almeno un anno di anzianità”. In ogni caso, vengono aiutati solo di componenti che sono in regola con le quote di iscrizione. Il che rende simile la Società di mutuo soccorso di Bolognetta a quelle fondate nell’’800 in Italia ed alle confraternite religiose, alcune delle quali, ad esempio quella delle “Anime sante”, garantiscono una sepoltura al cimitero ai “fratelli” che per un certo numero di anni abbiano versato regolari contributi alle casse della “fratellanza”.
Il Club o Clobbo, come tutti lo chiamavano, serviva come luogo di aggregazione  degli emigrati di Bolognetta e dintorni e come punto di riferimento per lo scambio di informazioni e l’organizzazione della festa annuale del santo patrono. Tale appuntamento, preparato con cura, aveva l’effetto di rinsaldare il senso di appartenenza e l’identità locale. Mentre inizialmente erano accettati solo i bolognettesi, maschi e maggiorenni, in seguito furono ammessi alla vita associativa anche coloro che fossero originari di altri comuni, fermo restando che le cariche direttive erano appannaggio dei  primi.
Era senz’altro motivo di orgoglio avere la disponibilità permanente di una sede, mentre altri sodalizi non poterono permettersi altrettanto e cambiarono frequentemente locale, reperendo sedi provvisorie o finendo con lo scomparire del tutto con il trascorrere degli anni in seguito all diaspora da Manhattan verso  altre zone dell’area metropolitana.
 
Il Club non è però l’unica esperienza di aggregazione tra bolognettesi emigrati di cui ci è giunta notizia: un gruppo di emigrati, non sappiamo quanto numeroso, aveva formato una loggia collegata all’ OSIA, Order of Sons of Italy in America, una organizzazione interregionale fondata nello stato di New York nel 1905 dal medico Vincent Sellaro. Lo testimonia una bandiera tricolore con stemma sabaudo e la scritta “Loggia notar Benanti n.94 dell’Ordine dei figli d’Italia in America”, ancor oggi custodita tra i documenti ed i cimeli storici della Società. La sezione bolognettese dei Sons of Italy era significativamente intitolata al notaio Vincenzo Benanti, a lungo consigliere comunale e poi sindaco di Bolognetta dal 1880 al 1888. Non conosciamo quali fossero i rapporti  intercorsi tra i due sodalizi, che potrebbero essere stati di semplice coabitazione, di collaborazione o che possono addirittura aver costituito per un certo periodo un’unica realtà. Si tratta in ogni caso di un segno di apertura all’esterno della comunità bolognettese, proprio nel momento in cui la tendenza prevalente era quella della chiusura campanilistica, delle società di mutuo soccorso “monopaesistiche”, che si andavano sostituendo alle associazioni di tipo regionale o nazionale, presenti nei primi decenni della diaspora italoamericana.
Molti segni ci dicono che l’istanza religiosa ha un peso non indifferente nella vita del Club: già tre anni dopo nella sede ufficiale viene sistemata una statua del santo protettore di Bolognetta, il portoghese Antonio da Padova. Il simulacro in legno, che riproduce quello presente nel paese di origine anche se di dimensioni leggermente ridotte, viene fatto arrivare dall’Italia per iniziativa, pare, del primo presidente, Filippo Rinaldi, e posta nella sede della Società, divenendo oggetto di grande venerazione da parte dei soci, e non solo. E’ probabile che la convinzione, presente in molti degli attuali iscritti, che la Società fosse sorta nel 1905, derivi dalla data di arrivo del simulacro, che dovette costituire un evento miliare nella storia del Clobbo.
Il 13 giugno di ogni anno, tutti gli oriundi bolognettesi si radunavano a Manhattan per la festa del loro patrono, per altro assai conosciuto presso le varie Little Italy, cui affidavano le loro preghiere e gli ex-voto di ringraziamento, avendo così la possibilità di rivedere amici, parenti e conoscenti sparsi in città e stati spesso lontani ore ed ore di viaggio. In sostanza, per le vie di New York, viene riprodotto, adattandolo alla situazione, lo stesso tipo di modalità organizzativa utilizzato in Sicilia. “La festa del patrono - racconta la sociologa Marie Levitt, in un manoscritto sugli usi dei siciliani in America citato - è il più grande evento dell’anno, superato per importanza solo dalla Pasqua. Il gruppo responsabile dell’organizzazione affigge manifesti che annunciano la data e il programma, e con l’aiuto di alcuni membri prepara la celebrazione in tutti i particolari” .
 Per Luigi Villari, le società di mutuo soccorso italiane si rivelano  principalmente indirizzate “alle feste sociali, ai banchetti, alle famose parate che hanno luogo per le celebrazioni italiane o americane, laiche o religiose. In tali occasioni le società organizzano grandi processioni, speso parecchie si riuniscono per rendere più importante la manifestazione, e con vessilli spiegati e bande musicali, precedute da marescialli a cavallo, percorrono le strade della città”.
Altri osservatori sono più benevoli: non si tratta per loro solo di folklore, manifestazioni di prestigio ed apparenza, ma anche di genuina religiosità e di legami a valenza identitaria. “Fu così che… nacque un nuovo senso di solidarietà che andava al di là delle divisioni regionali e che corrispondeva al bisogno di mantenersi legati alle proprie radici. La fede e la devozione – scrive Silvano M. Tomasi presidente del Center for migration studies di New York – unirono il vecchio ed il nuovo mondo in un lento ma vitale processo di integrazione”.
Anche la storica Donna R. Gabaccia dà un giudizio tutto sommato positivo sui comitati organizzatori delle feste presenti tra gli immigrati dalla Sicilia a New York,  valutati alla stregua di lontano annuncio e palestra di future aggregazioni di mestiere o addirittura di classe.  “Può darsi – scrive  nel suo From Sicily to Elizabeth Street - che i vincoli personali tra vicini abbiano sostenuto una  vita istituzionale meno ricca di quella delle colonie orientali ebraiche della Bowery, ma gli uomini di Elizabeth Street crearono organizzazioni formali ed informali che superarono di gran lunga il municipalismo rurale siciliano.
Come in Sicilia, vi furono non uno, ma molti modi di costruire una rete associativa attorno alla famiglia: mercati di ambulanti, società di affari, bande giovanili, comitati per i festeggiamenti, club di paese, pompe funebri, società di assistenza per malati o di mutuo soccorso”.

2. Il cambiamento di nome
Il primo ventennio XX secolo vede solcare l’oceano con i bastimenti dai porti di Palermo, Napoli e Genova, nonostante le leggi restrittive, gruppi sempre più numerosi di donne e uomini provenienti dalla Sicilia e quindi anche da Bolognetta, che possono usufruire dell’affidavit di parenti pronti ad ospitarli negli States e a dare loro l’utilissimo sostegno iniziale. Gran parte di loro hanno la possibilità, fino alla metà degli anni venti, di superare le barriere anti-immigrazione in quanto sono
nati a New York da genitori siciliani e poi sono tornati temporaneamente in paese.
Anche il nostro Clobbo si espande, spostando la sede sociale al n. 203 di Elizabeth Street, che funziona insieme da luogo di ritrovo per lo scambio di notizie, per la partita a carte e da cappella religiosa. Vengono stabiliti precisi limiti di orario perché nessuno resti a giocare oltre l’una
di notte, pena l’espulsione.
Negli anni 1922-23 la “Società di Mutuo Soccorso di Bolognetta”avviene un fatto nuovo: i suoi dirigenti decidono di mutare nome per assumere quello di “Società S. Antonio di Padova di Bolognetta”. L’iniziativa è partita ufficialmente dal presidente Salvatore Bordonaro. Di lui i registri di sbarco di Ellis Island  indicano l’arrivo nel Nuovo mondo nel settembre 1908 con la nave “San Giorgio” proveniente da Palermo. Il presidente, che vive ad Elizabeth Street (come i fondatori del club e come la maggior parte dei compaesani), ed il segretario dell’associazione, Filippo Arrigo, nato a anch’egli a Santa Maria di Ogliastro nel 1863, domiciliato in Mott Street, mettono in atto con meticolosa cura ogni adempimento richiesto dalle leggi statali per portare a buon fine il progetto di cambiamento. Nel mese di dicembre 1922 si fanno autorizzare dal Secretary of State di New York a disporre del nuovo nome. Fanno  quindi pubblicare il 3 ed il 10 febbraio 1923, sul quotidiano
“Il Popolo” (italian independent newspaper diretto da Philip Giordano, con sede in Worth Street nel quartiere di Manhattan) un annuncio che convoca tutti i soci, circa sessanta, già invitati a mezzo posta, per uno special meeting, assemblea speciale, che ha all’ordine del giorno la delibera del
mutamento del nome. La riunione si svolge la sera del 10 febbraio 1923: gli atti ufficiali riferiscono che i membri della società, all’unanimità, accettano la proposta dei dirigenti. Il verbale dell’assemblea, pubblicato dalla stessa testata nell’edizione del 17 e del 24  febbraio,  servirà a
redigere, il 28 febbraio successivo, l’atto notarile che porta alla nuova denominazione ufficiale: da quel momento il sodalizio si chiamerà appunto “Society St. Anthony of Padua of Bolognetta, inc”, assumendo quindi come nome quello del santo protettore di Bolognetta la cui statua in legno è
venerata nella sede sociale.
I sessanta soci invitati al meeting che decide la trasformazione della ragione sociale hanno quasi tutti l’”ultimo domicilio conosciuto” nella zona in cui ha sede il Club. Più della metà abita nella stessa strada, a poche centinaia di metri dalla sede. Dieci iscritti, poi, risiedono nel palazzo al numero civico 291 di Elizabeth Street, otto al numero 293, sei al n. 295. Soltanto uno dei soci è domiciliato al Bronx ed uno a Brooklyn. Tutti segni evidenti della concentrazione della comunità bolognettese  in
pochi chilometri quadrati della grande città americana.
       Dai documenti in nostro possesso, che pure in questo caso sono abbondanti e minuziosi, non si evidenziano le motivazioni del cambio del nome. Possiamo solo ipotizzare che, in seguito alla integrazione dei bolognettesi nel tessuto sociale della Little Italy fosse venuto meno il connettivo costituito dalla necessità dell’aiuto reciproco a livello economico tra i membri della comunità di emigrati e con il passare del tempo fosse diventato prevalente il legame religioso, del resto evidente nella folla che accorreva da ogni parte della metropoli, dalle città e dagli stati vicini ai festeggiamenti in onore del santo di Padova. E’ probabile che si volesse mettere in sordina le precedenti seppur timide “vaghe idee di socialismo” (per dirla con il cantautore Francesco Guccini) poco gradite alle autorità statunitensi, o a quelle italiane, o ad entrambe. D’altro canto, molte associazioni di italoamericani erano intitolate a dei santi, ed anche gli  oriundi dal vicino paese di Marineo,  avevano formato, tra il 1898 ed il 1903 a New York nella contigua Mulberry Street, e nel 1909 a Garfield nel New Jersey, il loro club di riferimento e l’avevano intitolato senza incertezze al loro santo protettore, San Ciro medico eremita martire. Anche  gli emigrati provenienti dal Comune di Mezzojuso, a quindici chilometri da Bolognetta, ai erano organizzati in una “Congregazione di Mutuo Soccorso in New York” intestandola al SS. Crocefisso, e gli oriundi di Ciminna la Società di San Giovanni.


3. La rifondazione a Garfield.
        
Gli emigrati provenienti da Bolognetta, sparsi ormai in diversi stati della costa atlantica, ma non solo, e con un forte nucleo nel nord del New Jersey, nelle cittadine di Garfield,  Lodi, Passaic, Patterson, in un’area a forte presenza tessile e manifatturiera ad un’ora da New York, si inseriscono in modo sempre più incisivo nel tessuto sociale ed economico di quelle regioni, in maggioranza come lavoratori dipendenti nei diversi settori di lavoro, ma anche come imprenditori nel campo dell’edilizia, della ristorazione e dei servizi.
      Nel 1964 il palazzo di Manhattan dove ha sede il club, deve essere demolito per dare posto ad una nuova costruzione. Non ci sono molti soci attivi nella zona, che abbiano interesse a mantenere in quella parte della grande città il punto di incontro del sodalizio. Sono rimasti solo Giuseppe
Milazzo, Silvestro Di Peri, originario di Marineo (Palermo), suo genero, e il segretario Antonino Inguì. La maggior parte dei bolognettesi d’America vive ormai in altre zone di New York o nel New Jersey, in Pennsylvania o nel Connecticut. Occorre salvare la statua di S. Antonio custodita nella cappella della Società, altrimenti dovrà essere abbandonata al suo destino. L’allarme viene dato dal presidente del sodalizio Mario Oliveri, cognato di Frank Bivona, proprietario del palazzo da demolire ed anch’egli oriundo di Bolognetta. Egli informa nel maggio 1964 il cugino Frank Ciccu Oliveri,
abitante a Lodi, N.J., del pericolo che correva il simulacro del santo protettore e della situazione precaria in cui versava il Club. Frank Oliveri si rivolgeva a Tommaso Bordonaro, che abitava  dal 1947 a Garfield nel New Jersey, città di 35.000 abitanti con forte presenza italiana e polacca, ed
era conosciuto come persona sensibile alle istanze religiose per la colletta annuale in onore di S. Giuseppe.
Superata qualche iniziale perplessità, Tommaso, accompagnato da un gruppo di parenti, si reca una domenica mattina del mese di maggio 1964 ad Elizabeth Street e con la capiente automobile del fratello Luciano preleva la statua, che viene loro consegnata da Silvestro Di Peri e da Giuseppe Milazzo. Bordonaro riprende con la sua cinepresa l’avvenimento per poter dimostrare di avere ricevuto una regolare consegna dagli ultimi custodi. Racconta in una sua memoria autobiografica che, prima di prelevare la statua di s. Antonio da Padova, egli chiese infatti a  Giuseppe Milazzo: - “Zu Pippinu, c’è pericolo che devo avere trubulo per l’avvenire?”- sentendosi rispondere in modo rassicurante: - “Portati il Santo, se vi è qualcuno che si ribella, digli che viene da me che gli darò soddisfazione.”
A Garfield, la statua di Sant’Antuninu, festosamente accolta con fiori e bandiere, viene esposta in occasione del 13 giugno con la partecipazione di tanta gente che ringraziava gli intraprendenti compaesani per il trasporto effettuato. Viene prima trovata una collocazione provvisoria in casa di un socio fondatore, in Harrison Avenue, poi in Malcolm Avenue, nei pressi dell’abitazione di Tommaso Bordonaro, ed infine una definitiva nella nuova sede sociale al n. 148 di Harrison Avenue.
Grazie all’impegno di un gruppo di volenterosi soci, il club viene “rifondato”, ossia viene ricostruito sia dal punto di vista organizzativo sia dal punto di vista legale pur mantenendo il nome che aveva assunto nell’inverno 1923. Viene fatta una prima raccolta tra le famiglie originarie di Bolognetta presenti nella zona: ciascuna di esse versa un contributo volontario (50 dollari e due sedie) per  ridare vita al circolo in cui si riconoscevano i bolognettesi della diaspora. Grazie ad un prestito fatto alla Società da parte di alcuni associati, viene acquistato il terreno dal Comune di Garfield, costruito l’edificio per la nuova sede e aperta l’attività sociale.
A pochi giorni dalla festa in onore del Santo del giugno 1964 vanno dal notaio John J.Greco di Riverdale cinque oriundi bolognettesi: Giuseppe Leto e Frank Oliveri, che abitano a Lodi, Tommaso Bordonaro ed Antonino Sclafani, abitanti a Garfield, e Guglielmo Saverino domiciliato a Patterson.  I rifondatori firmano il “certificate of incorporation”, con cui attestano la formazione di una società secondo le leggi vigenti nello stato del New Jersey. Il sodalizio prende ufficialmente il nome di Society S. Anthony of Padua of Bolognetta, mentre in altri documenti verrà variamente indicato come “S. Anthony’s  Society of Padua”, oppure “S. Anthony Society of Garfield”,“Società Cattolica S. Antonio da Padova protettore dei Bolognettesi” ovvero ”Society San Antonio di Padova”. Nell’atto notarile sono indicate come  finalità fondamentali “la conservazione della dottrina e dei principi cattolici, fornire mutua  assistenza e aiuto economico agli
iscritti, promuovere e potenziare lo sviluppo delle finalità educative dei soci, acquistare e contrattare, ai fini di possedere o prendere in affitto proprietà immobiliari e provvedere al  mantenimento di una sede di riunione della società con annessi mobili ed arredi”. Finalità abbastanza simili a quelle della “Congregazione di mutuo soccorso SS.Crocefisso in New York”, fondata nel marzo 1907 tra gli oriundi di Mezzojuso, comune del palermitano, a quindici chilometri da Bolognetta. “Scopo precipuo di questa confraternita -  si legge nello statuto-regolamento di questo organismo ormai scomparso – è il mutuo soccorso tra i suoi membri, in caso di malattia e di infortunio imprevisto, il miglioramento morale e civile e la pratica dei principii della nostra Santa religione fra gli associati”.
Nel 1970 una speciale Commissione, presieduta dall’ex presidente Rosario Di Piazza, provvede alla redazione di un nuovo statuto, che viene discusso e approvato all’unanimità nell’assemblea dei soci tenuta l’8 marzo di quell’anno. Il nuovo regolamento, composto da trentasette articoli, prevede, oltre i doveri ed i diritti dei soci, l’assegnazione degli incarichi ai dirigenti ed i loro compiti, le modalità di funzionamento della società. Molte regole ricordano la solidarietà che è sempre scattata tra gli emigrati nel momento del bisogno e che sono probabile retaggio del Club newyorchese: chi ha notizie sul ricovero in ospedale o sul decesso di un socio è tenuto a darne tempestiva notizia al presidente del Clobbo, che si premurerà di effettuare una visita al malato o ai familiari.
Il Club nel corso del tempo istituisce delle borse di studio per i giovani meritevoli delle scuole superiori di Garfield  e realizza alcuni appuntamenti  annuali: la processione e la festa di S.Antonio, affidati ad un comitato ad hoc; il pic-nic di mezza estate con cui le famiglie dei soci trascorrono una giornata immersi nel verde di una località montana; il dinner-dance, la serata danzante d’autunno,  durante il  quale viene distribuito l’annual book, elegante volume contenente il messaggio del
presidente, l’elenco dei soci e delle cariche sociali, le inserzioni delle ditte che hanno contribuito alla iniziativa. Il sodalizio, che organizza anche viaggi di gruppo in Sicilia ed in Italia nei mesi estivi, raccoglie ormai circa 150 associati, di cui molti “bolognettesi acquisiti” e riesce aconvogliare da tutta l’east coast nell’annuale dinner-dance anche seicento ospiti. La società appoggia anche la Polizia di Garfield e i vigili del fuoco, l’Ambulance Corps e molte altre organizzazioni di carità.
Anche il nostro Club ha avuto il suo ’68 con il protagonismo dell’”altra metà del cielo”. In quell’anno si registra infatti la nascita di una sezione femminile che si organizza autonomamente. Se le donne hanno sempre partecipato con impegno ai grandi momenti della vita della comunità, soprattutto a quelli religiosi, le varie fasi della storia della Society erano state scritte ufficialmente solo dalla componente maschile, proseguendo una tradizione presente nel paese di origine in cui si parlava fino ad una certa epoca solo di “fratelli” iscritti alle diverse congregazioni religiose. I mutamenti di costume e soprattutto una nuova consapevolezza delle donne, portano tra aprile e maggio di quell’anno la componente femminile delle famiglie originarie di Bolognetta ad organizzareuna sezione del  Club a loro riservata che prende il nome di “S.Anthony’s Society Women’s Auxiliary”. Oltre ai momenti religiosi e ricreativi, il calendario della sezione femminile prevede non  poche attività di beneficenza: donazioni alle persone in stato di bisogno ed all’Istituto “Figlie della Croce” di Bolognetta, aiuti a favore dell’Association of Retarded Citizens e della chiesa di Montevergini di Garfield.
Santo Lombino







































Monumento funebre e busto marmoreo di Marco Mancino II marchese di Ogliastro (1637)



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